“The Young Pope”, richiamo alla coerenza della missione della Chiesa
[di Francesco Indelicato] Una pellicola al limite della blasfemia, con una visione distorta della vocazione religiosa ma anche con un desiderio di autenticità nell’opera di evangelizzazione
Un’idea della serie televisiva “The Young Pope”, trasmessa in queste settimane da Sky Atlantic, si può ricavare sin dalla sigla iniziale: un papa giovane che cammina accanto a dipinti che raffigurano momenti salienti della storia della Chiesa, riguardanti tra l’altro la vocazione di San Pietro e di San Paolo oltre alle stimmate di San Francesco, per terminare in modo traumatico con “La nona ora” di Maurizio Cattelan, ossia con l’installazione che vede Giovanni Paolo II colpito da un meteorite. Il senso inequivocabile della scena rappresenta il momento di rottura con il governo della Chiesa dopo Giovanni Paolo II.
Del resto nelle prime puntate della serie, l’unico vero papa ad essere nominato è proprio Giovanni Paolo II: se ne parla a proposito di un immaginario divieto di fumare nel palazzo apostolico che avrebbe introdotto il papa polacco e che Pio XIII, “the young pope”, viola sistematicamente. E gran parte della pellicola tende ad esasperare la figura di papa Francesco, sia per il modo di fare non convenzionale del giovane papa, sia al contrario riguardo alla “invisibilità” del pontefice e alla sua estrema rigidità conservatrice.
“Con questo abuso del perdono, siamo diventati una barzelletta, eminenza”, sostiene Pio XIII parlando con il suo segretario di stato, il cardinale Voiello interpretato da Silvio Orlando, un uomo che rappresenta il lato politico e affaristico della chiesa del passato. Quindi basta con la misericordia, basta con le porte aperte, basta con il ricercare numeri e successo terreno, perché la parola d’ordine è adesso: “Non ci siamo per nessuno se non per Dio”.
Ricordando che il regista della serie è Paolo Sorrentino, non nuovo a nette critiche riguardo un certo modo di fare della Chiesa cattolica, non c’è da rimanere stupiti se, come evidenziava il settimanale “Famiglia Cristiana” qualche giorno fa, la pellicola rischia di essere blasfema. Soprattutto quando Pio XIII chiede al suo confessore di non osservare il sigillo sacramentale per ottenere informazioni riservate sui cardinali e vescovi della curia. Ma la serie trasmette anche un messaggio positivo, ossia la richiesta del mondo laico alla Chiesa di essere coerente con la propria missione. “La Chiesa ha la mania di fare spesso la conta dei fedeli”, ricorda il regista in una recente intervista televisiva, ed evidentemente non è sulla quantità ma sulla qualità che è necessario puntare.
Il vero scandalo di questa serie sta, a mio avviso, nello scetticismo del papa giovane nei confronti dell’esistenza di Dio. Come mai il regista avrà pensato a un simile paradosso? Magari nella storia del cristianesimo non sarà mai accaduto un dramma del genere, ma probabilmente dall’esterno della chiesa, quando si assiste ad esempio a lotte intestine, a rivalità di potere, a formalismi esagerati è possibile pensare che determinate dinamiche derivino da mancanza di fede e da una visione immanente della religione, utilizzata solo per scopi temporali.
A differenza di quanto è stato dichiarato su alcuni quotidiani, ritengo che molte scene del film non siano poi così lontane dalla realtà. Del resto Pio XIII viene raffigurato da Sorrentino come un uomo integerrimo, lontano da scandali di qualsiasi natura. Il problema non è tanto ammettere che all’interno del Vaticano si vivano episodi scandalosi simili a quelli raccontati da “The young pope”. Ormai la stampa ne parla in maniera documentata. E soprattutto lo stesso Vangelo testimonia a più riprese che tra gli apostoli non ci fosse grande sintonia con Gesù: a partire da quando litigavano tra loro su chi fosse il più grande, proprio mentre il Maestro ricordava loro che avrebbe dovuto soffrire e morire; e poi addirittura sotto la croce, laddove un apostolo lo tradì, l’altro lo rinnegò e tutti lo abbandonarono al suo “destino”.
È vero comunque che la realtà della Chiesa va ben oltre questi scandali, in quanto essa si fonda direttamente sulla roccia che è Cristo stesso e in quanto essa non si può identificare riduttivamente con il Vaticano. In questo senso è del tutto sbagliata la visione del regista circa la figura del consacrato, che viene anzi dipinta in modo distorto. Sacerdoti e suore non sono frustrati, vigliacchi e anaffettivi, come più di una volta si accusano i protagonisti del film. O meglio non lo sono più dei single o degli sposati nella misura in cui si vive la propria vocazione in rapporto alla parola di Dio. E questo “particolare” lo si può riscontrare solo se si sta a stretto contatto con gli uomini e le donne di chiesa, in Vaticano e negli istituti religiosi e nelle parrocchie di ogni angolo della terra.
Seguire il Vangelo costa fatica, perché si deve fare i conti con la apparente “assenza” di Dio tanto declamata da Sorrentino. Ma Dio in realtà lo si vede con chiarezza tutte le volte che si ama in modo autentico, alla maniera di Gesù. Il regista soffre molto – come spesso ha sottolineato in questi anni – l’assenza dei suoi genitori, che morirono improvvisamente in un incidente stradale quando lui aveva solo 17 anni. Ma a differenza dell’assenza di un genitore, che può lasciare solo ricordi e talvolta amarezza, l’assenza di Dio è invece un modo di manifestare la sua presenza e il suo amore, come amava ricordare il teologo H. Urs Von Balthasar, secondo il quale Dio rivelandosi si nasconde e nascondendosi si rivela. Un “gioco” al nascondino che educa il cristiano alla libertà, alla responsabilità e alla piena maturità della propria vita.