Società dell’informazione: la sfida è culturale

Evidenziare il contribuito di Internet e delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni alla società e all’economia. E’ questa la finalità dell’odierna Giornata internazionale della telecomunicazione e della società dell’informazione. Ma quali sono le condizioni affinché tali tecnologie possano avere un impatto positivo sulla società non solo da un punto di vista economico? Amedeo Lomonaco lo ha chiesto al presidente dell’Associazione Italiana Ascoltatori Radio e Televisione (Aiart) Massimiliano Padula.

R. – Io credo che le tecnologie dell’informazione possano supportare e sostenere l’individuo, alimentando anche logiche economiche favorevoli e prospettive positive, ma è necessario intercettarne quelli che sono gli aspetti problematici e quindi, in un certo senso, abituarsi anche ad una vera e propria cultura della comunicazione.

D. – La “società dell’informazione” può anche rivelarsi però una gabbia senza sbarre: alla libertà di trasmettere ogni tipo di informazioni in tempi sempre più ridotti, si aggiunge spesso la sospensione sempre più marcata delle relazioni umane, non vissute “faccia a faccia” ma imprigionate in un’applicazione o nei social network…

R. – Io credo che bisogna ritornare in un certo senso all’essenza. Molto spesso i social network, la cultura digitale ci illude attraverso una comunicazione spot, attraverso degli slogan. Credo, quindi, che sia fondamentale innescare un meccanismo culturale. Noi, come Aiart, come associazione spettatori e utenti dei media, abbiamo tre parole chiave per orientarci in questa prospettiva. La rete non dovrà essere soltanto un oggetto di studio, ma un vero e proprio paradigma operativo. E proprio in questo senso noi proponiamo tre percorsi. Il primo è un percorso di consapevolezza per conoscere quello che la rete ci propone. Poi c’è il senso critico per interpretare il contenuto. In terzo luogo, si deve diventare veri e propri cittadini digitali, con dei diritti, ma anche con dei doveri.

D. – C’è il rischio che la società dell’informazione, se gestita da pochi centri di controllo, possa in realtà diventare la società dell’omologazione?

R. – C’è questo rischio. Le grandi multinazionali dell’Information e Communication Technology, in un certo senso, orientano le nostre esistenze. Io faccio sempre l’esempio dello screen di uno smartphone pieno di applicazion. Ad ogni applicazione corrisponde la soddisfazione di un bisogno. E’ come se lo schermo di quello smartphone fosse proprio il nostro palinsesto dell’esistenza. E’ come se noi, cioè, orientassimo i nostri comportamenti, le nostre scelte, il nostro consumo, la soddisfazione dei nostri bisogni, in relazione a quelle applicazioni. Esiste, quindi, ed è evidente, questo rischio dell’omologazione e credo che sia fondamentale alimentare processi di educazione mediale e dare all’utente dei media quegli strumenti concettuali necessari proprio per districarsi ed orientarsi in una cultura che rischia di fagocitarlo.

D. – Colmare il divario digitale può ridurre in gran parte anche altri divari – tra cui quelli tra ricchi e poveri, tra nord e sud del mondo – e può anche contribuire a creare posti di lavoro. Ma questo grande potenziale può essere messo al servizio di uno sviluppo realmente sostenibile?

R. – La creazione di una vera e propria cittadinanza digitale credo sia l’obiettivo al quale l’universo tecnomediale, l’universo sociale mira. Il riferimento al messaggio per la Giornata delle comunicazioni sociali è forte, in quanto Papa Francesco in quelle pagine richiama proprio ad una cittadinanza, facendo un rimando forte al concetto di responsabilità. Mi piace sottolineare i due percorsi, i due processi che Francesco sceglie per indicare la comunicazione: sono da un lato la misericordia – una comunicazione aperta, accogliente, una comunicazione che spalanca le sue porte e si inginocchia alla luce dell’ascolto – e, nello stesso tempo, una comunicazione come prossimità, come affezione, come sensibilità, come relazione e scambio con l’altro.
D. – E bisogna anche ricordarsi che la tecnologia è solo uno strumento. La felicità – ha detto recentemente il Papa – non è una app…

R. – La felicità non è una app. La tecnologia è uno strumento. La tecnologia è certamente il riflesso, la proiezione del nostro cuore. In un certo senso, siamo noi stessi, in quanto appunto riverberiamo, proiettiamo noi stessi, le nostre angosce, le nostre gioie, le nostre felicità, i nostri desideri nei media, nella comunicazione e, quindi, anche negli apparati tecnologici.

Dal sito it.radiovaticana.va del 17/05/2016