Sempre qui, sempre ora. L’eterno presente dell’universo multimediale
I modelli interpretativi tradizionali sembrano ormai confinati nella preistoria, per far spazio ad analisi, modelli di produzione e stili di fruizione figli dell’universo multimediale, che offre nuove opportunità e profila nuovi rischi. Intervista di Claudia Di Lorenzi a Luca Borgomeo, già presidente del CNU e dell’Aiart, oggi Membro del Comitato di Presidenza della stessa associazione. Dal n. 8 di marzo 2016 di Reputation Today
Sempre qui, sempre ora
L’eterno presente dell’universo multimediale
Di Claudia Di Lorenzi
Nel mondo dei media il dinamismo introdotto dall’innovazione digitale si traduce anzitutto in una crescente convergenza degli strumenti di comunicazione, che abbatte i confini tradizionali verso una sempre maggiore condivisione di contenuti e linguaggi. Ecco che giornali, tv, radio e web si mescolano e si “alleano” su piattaforme multimediali dove storie, eventi, dati, fatti di cronaca, politica, cultura ed economia sono raccontati attraverso l’uso congiunto di parole, immagini, video, suoni ed elementi grafici, in un continuo passaggio fra dimensioni contigue, dove anche le categorie di spazio e tempo sfumano in un unico indistinto presente. Ed ecco che i modelli interpretativi tradizionali sembrano ormai confinati nella preistoria, per far spazio ad analisi, modelli di produzione e stili di fruizione figli dell’universo multimediale, che offre nuove opportunità e profila nuovi rischi. Ne abbiamo parlato con Luca Borgomeo, già presidente del Consiglio Nazionale degli Utenti e dell’Aiart- Associazione spettatori, oggi Membro del Comitato di Presidenza.
Borgomeo, come è cambiato il rapporto tra spettatori e tv con l’avvento di internet?
“Per comprendere l’evoluzione del rapporto fra tv e utente è necessario considerare una tappa ulteriore, quella che ha visto il passaggio dalla tv analogica a quella digitale, con il moltiplicarsi dell’offerta fino a un migliaio circa di canali. Infatti, se da un lato questo ha ampliato le possibilità di scelta dell’utente, dall’altro ha fatto si che di fronte a contenuti inadeguati il telespettatore non protesti più, a differenza di quanto accadeva quando in tv c’erano solo i tg e pochi programmi. Oggi il telespettatore si limita a cambiare canale. Questo fatto viene letto in maniera strumentale da alcune emittenti che dicono “siamo diventati più bravi”, ma è solo il frutto di un atteggiamento e di uno stile di fruizione nuovi. La tv via internet ha le stesse caratteristiche di ampliamento dell’offerta ma un elemento in più, l’interattività, che consente all’utente anche di esprimere il suo parere sui programmi e i suoi desideri, e dunque è un elemento positivo. L’interazione fra tv e social network ha potenziato questo fenomeno accrescendo le capacità critiche dell’utente”.
Questa enorme diponibilità di contenuti incide sul monitoraggio della qualità dei prodotti?
“È impensabile oggi monitorare programma per programma, come si faceva ieri con particolare attenzione ai programmi più esposti a denunce. Tra l’altro con la tv on-demand si possono rivedere i programmi in orari diversi dalla messa in onda: un’altra rivoluzione. Se si pensa poi che rispetto a dieci anni fa il rapporto fra gli utenti della tv e quelli di internet si è capovolto, passando dall’1% al 60% di utenti che fruiscono del web, allora si comprende che le attività di controllo tradizionali sono superate. Oggi è necessario agire a monte –l’Aiart fece questa proposta anni fa – obbligando le emittenti e tutti i produttori di contenuti a certificare i loro prodotti come “a norma” rispetto alla normativa vigente, come si fa con i prodotti alimentari. A quel punto io ti controllo, se trovo qualcosa di non conforme ti denuncio e ti sanziono. Inoltre, è fondamentale investire sulla formazione: l’educazione ai media dovrebbe far parte del percorso formativo obbligatorio di ogni ragazzo, ed è necessaria anche per gli adulti, soprattutto per genitori giovani e gli insegnanti”.
Il nuovo scenario impone un ripensamento degli strumenti normativi. A che punto siamo?
“In Europa il caso Italia è del tutto particolare, viste le procedure di infrazione a cui siamo stati sottoposti da parte delle istituzioni comunitarie. Il nostro Paese ha aggirato la normativa europea in tema di tutela dei minori, al punto che un film che in Italia passa tranquillamente in Germania e Inghilterra sarebbe out. Inoltre, la concentrazione del potere mediatico ha creato una difficoltà aggiuntiva: la mancanza di concorrenza fra Rai e Mediaset, la fine della specificità del servizio pubblico con il livellamento dell’offerta televisiva”.
Che peso ha oggi l’Auditel?
“La centralità del potere degli ascolti, peraltro registrati attraverso un sistema notoriamente inaffidabile, crea ulteriori problemi in quanto lo share diventa impropriamente sinonimo di qualità e viene utilizzato in maniera arbitraria per valutare i programmi e per confezionare quelli futuri. In Italia – unico caso in Europa – il sistema degli ascolti è sottratto del tutto al controllo della Commissione di Vigilanza, del Parlamento e del Governo. Quando la Commissione ha chiesto all’Auditel i nomi delle 5600 famiglie soggette a rilevazione, l’Auditel ha risposto che non li avrebbe dati per rispetto della privacy. Un sistema così centrale nel sistema radiotv non può essere totalmente al di fuori del controllo delle istituzioni. Si comprende che le emittenti private siano imprese che perseguono legittimante il profitto, ma il servizio pubblico dovrebbe perseguire il vero e il bello e influenzare in maniera positiva la tv commerciale, non allinearsi ad essa come spesso accade. Poiché la tv può influenzare le vite private, non si possono disgiungere gli obiettivi d’impresa dalle valutazioni di carattere etico”.
In che direzione andare allora?
“Anzitutto, vista la convergenza crescente dei media, serve unire in un soggetto unico il Comitato Media e Minori e il Comitato Internet e Minori, e poi assicurare che il nuovo organismo abbia un potere effettivo. Negli ultimi anni invece abbiamo assistito al depotenziamento del Comitato Media e Minori, con una paralisi durata due anni per il mancato rinnovo dei vertici, i licenziamenti del personale e il mancato coinvolgimento degli utenti nella stesura del nuovo Codice. All’inizio, anche se l’irrogazione delle sanzioni era un evento raro, il Comitato era un pungolo per le emittenti. Poi lo sviluppo della normativa italiana invece che produrre un aumento delle tutele – come chiedeva l’Europa – ha portato ad una riduzione delle stesse, per l’introduzione di accorgimenti tecnici insufficienti. Il Parlamento dovrebbe elaborare un codice etico unico per le emittenti e per i produttori di contenuti, che riunisca quelli che ci sono ma restano disapplicati, e imporne il rispetto. Oggi invece viviamo una condizione di impunità. Ancora, serve rafforzare il sistema delle sanzioni perché abbiano un vero potere deterrente, e obbligare all’autocertificazione dei prodotti”.
Guardando alle potenzialità del web, quali sono le funzionalità più utili per gli utenti?
“La mia nipotina ha 12 anni e fa ricerche sul tablet con una rapidità straordinaria e con la capacità di connettere le cose fra loro. Se mentre studia ha una curiosità può verificarla subito e questo favorisce lo sviluppo di capacità di approfondimento ed elaborazione. E questo può valere anche per il tornitore che vede un tutorial su internet e impara come si fa: è una miniera. Ha valore ricreativo e anche sociale, di crescita della comunità perché mette in relazione le persone”.
Il web può favorire la costruzione di una buona identità “digitale”, ma può anche distruggere la reputazione. Quanta consapevolezza c’è dei rischi?
“La consapevolezza non manca, ma se in ballo c’è la possibilità di una maggiore visibilità, i più scelgono la visibilità. A fronte di “incidenti” ripetuti la prudenza cresce”.
A fronte di un sistema normativo carente e della crescente convergenza dei media, dell’inadeguatezza degli strumenti di controllo, non resta che puntare sull’educazione…
“Esatto, ma bisogna subito chiarire un’ambiguità di fondo. Non bastare educare all’uso dei media, serve favorire lo sviluppo di una capacità critica verso i prodotti mediali. Solo una coscienza critica può essere vigilante e attiva, capace di interpretare il messaggio in arrivo e ridurne il potere di influenza. Le istituzioni pubbliche dovrebbero supportare questo percorso di maturazione. L’Aiart raccolse migliaia di firme qualche anno fa per presentare una legge di iniziativa popolare che prevedeva l’obbligo per le scuole di offrire sei ore l’anno di media education: sei ore sono pochissime, ma si scelse una proposta contenuta perché non incontrasse ostacoli, né organizzativi né economici. Ma la cosa non ebbe buon fine”.
Cosa pensa della recente riforma della scuola: c’è sensibilità verso la media education?
“Nel testo se ne parla ma in maniera troppo generica, invece è necessario un investimento di risorse maggiore. Viene da pensare che essendo la tv uno strumento con cui si cerca di orientare il consenso allora non conviene avere spettatori maturi. È apprezzabile invece l’iniziativa del nuovo Direttore generale Campo Dall’Orto che ha annunciato di voler eliminare la pubblicità da Rai Yoyo, il canale dedicato ai bambini. In Inghilterra questo accade da anni, ma, come si dice, meglio tardi che mai”.
Ha fatto bene Apple a rifiutarsi di sbloccare il telefonino del killer di San Bernardino, negli USA, come chiesto dall’FBI?
“La questione è complessa, tra esigenze di privacy e sicurezza, ma a mio avviso se non fossero stati indotti da ragioni economiche non si sarebbero opposti: la difesa della privacy nasconde la difesa di altri interessi, legittimi ma meno nobili. Apple si difende usando la legge che è dalla sua parte, ma le leggi sono figlie del contesto in cui nascono, e oggi, in questo scenario nuovo, forse andrebbero ripensate”.
Guardando all’universo dell’innovazione digitale, cosa auspica?
“Che i produttori sviluppino un maggior senso di responsabilità sociale verso gli effetti dei loro prodotti, delle innovazioni che mettono in campo, e che, soprattutto in casi delicati come quello statunitense, si facciano carico degli interessi generali mettendo in secondo piano quelli di parte ”.
Claudia Di Lorenzi