Il populismo e i “social”. Ecco la tv che ha spento il «capitale sociale»
da avvenire.it
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Su questo giornale ci si è interrogati, con un recente e stimolante articolo di Maurizio Fiasco, su cosa abbia prodotto la degenerazione del capitale sociale di tipo solidaristico particolarmente forte in alcune regioni del nostro Paese: il Veneto bianco, ad esempio, e l’Emilia rossa. E si risponde portando sul banco degli imputati due processi: da una parte il progressivo distacco dei politici dalla vita della gente comune, dall’altro l’abdicazione del ceto degli intellettuali o meglio una certa maniera di schierarsi teoricamente a favore degli” ultimi”, in particolare i migranti, che finisce col sortire l’effetto opposto di esasperare gli animi tra i “penultimi”. La riflessione avviata da Fiasco costituisce una bella occasione per aprire un confronto meditato su cosa abbia determinato questo viluppo di piccole, grandi ostilità, di rancori niente affatto repressi, di rabbia sociale diffusa. Confronto che non potrà che avvenire per accumulazione di piccoli tasselli, di umili contributi.
Per parte mia, vorrei provare ad aggiungere un’ulteriore chiave di lettura; e chiamare a testimoniare una attempata signora dall’aria innocente. La vecchia e casalinga televisione. Uno scatolone ingombrante che ha fatto compagnia a milioni di italiani (elettori o elettori in erba) per decenni, prima di essere attorniata, invasa essa stessa e sopravanzata dalle nuove tecnologie. A partire dal 1954 la televisione è stata sì un formidabile elemento educativo e unificante del Paese, non dimenticando il contributo enorme che ha dato all’unificazione linguistica. Ma a partire dagli anni Ottanta si è prodotta, attraverso di essa (o, meglio al plurale, di esse), una grande, silenziosa e torva rivoluzione culturale che ha modificati i sentimenti sociali mainstream o, se si preferisce un linguaggio più semplice, il modello culturale imperante.
In effetti, con l’avvento della televisione commerciale, da quegli anni Ottanta novecenteschi in poi, mamma tv si è caratterizzata per lo sdoganamento scientifico e sistematico di atteggiamenti e comportamenti un tempo stigmatizzati. Insieme al ripiegamento sul privato (ricordiamo la storica, emblematica trasmissione “Indietro tutta”) la tv ha esaltato la primazìa della passione amorosa su ogni altra logica (ricordiamo le migliaia di puntate di telenovelas di quegli anni che hanno cambiato la testa a tante signore benpensanti); ha mostrato la competizione gridata e malevola (pensiamo alle tante trasmissioni pomeridiane in cui ci si accapigliava tra parenti, tra uomini e donne ,tra madri e figlie e così via, in un profluvio di turpiloquio ed esagerazioni conflittuali).
Noti opinionisti conquistavano intanto le platee, insultando gli altri ospiti in trasmissione. Cartoni animati apparentemente innocenti insegnavano l’arte e il gusto della violenza (una frase rubata a un cartone di quegli anni: «Dì la verità, è veramente eccitante uccidere»). In realtà un vero e proprio cavallo di Troia di un mercato selvaggio e senza alcuna etica, concentrato sulla creazione di una platea immensa di consumatori isolati. Nel silenzio assordante di molti, con poche voci isolate controcorrente. Anzi, nell’assoluto compiacimento di alcuni maître à penser (sic) catodici. A chi scrive sembra che la “questione televisiva” sia stata troppo sbrigativamente accantonata come qualcosa di irrilevante e di superato a fronte della moltiplicazione dei modelli di fruizione e delle nuove rampanti tecnologie mediatiche. Si parla solo di social, le virtù dei social, i rischi dei social e la televisione sembra ormai un reperto da soffitta o al più una curiosità per massmediologi. Ma, come si dice, anche il diavolo è nei dettagli. E, soprattutto, nelle piccole onde della storia….continua a leggere su avvenire.it