Perché non ho paura dei tweet da 10.000 caratteri
Twitter starebbe per dare agli utenti la facoltà di pubblicare tweet da 10.000 caratteri, cancellando, così, la sua caratteristica più peculiare: il limite di 140 caratteri. Di Vittorio Liuzzi dal sito Formiche del 7/01/2016
La storia è, ormai, arcinota. Riassumiamola brevemente, premettendo che la novità non è stata ancora ufficializzata. Twitter starebbe per dare agli utenti la facoltà di pubblicare tweet da 10.000 caratteri, cancellando, così, la sua caratteristica più peculiare: il limite di 140 caratteri. La reazione media che circola in rete è costernata: quella di una mortale perdita di identità. Addio ai brevi, sintetici, fulminanti post di micro-blogging. Un’inutile rincorsa ad assomigliare a Facebook. Devono dare qualcosa di nuovo (dopo la testa dell’ex CEO e co-fondatore di Twittter, Dick Costolo caduta il primo luglio) agli investitori angosciati dai 300 milioni di utenti cui Twitter è rimasto fermo da troppo tempo. E così via.
Ma è proprio così? Cominciamo da un’osservazione generale: le grandi compagnie tecnologiche come i maggiori social network o i motori di ricerca come Google sono imprese coraggiose. Studiano, sperimentano, acquisiscono, si innovano, generano prodotti e, se le innovazioni non funzionano, sono capaci di tornare indietro e ripartire. L’annosa storia dei tentativi di Google di creare un proprio social network ne è un grandioso esempio. Perciò annunciare, di fronte a uno di questi esperimenti, la “fine della storia” in positivo o in negativo è sempre suggestivo quanto inutile. Solo gli sviluppi reali possono dirci il valore del tentativo.
Come è noto, Twitter è divenuta, nel tempo, la piattaforma favorita di giornalisti e testate d’informazione per lanciare i propri articoli, luogo di commento e dibattito, di informazione istantanea e globale. La formula 140 caratteri comprendenti hashtag e shortlink (più, da qualche tempo, immagine) è divenuta la forma di una nuova arte della sintesi giornalistica.
Nei mesi passati, hanno però cominciato a porre pressione sul mondo dell’editoria sia Google che Facebook oltre a Snapchat. Si sa, l’editoria non se la passa per nulla bene: in realtà è sull’orlo dell’asfissia per il collasso degli investimenti pubblicitari, come Formiche.net ha spiegato a suo tempo.
E in questo scenario desolato, Snapchat con Discover, Big G con la Digital News Initiative e Facebook con i suoi Instant Articles hanno cominciato ad aprire rapporti diretti con il mondo dell’editoria. Vale a dire, guardandola con un po’ di concreto cinismo, a cercare di mangiarsi un’industria in declino.
Vale la pena di concentrarsi un momento su Instant Articles (peraltro non distante dal Discover di Snapchat ma con dietro tutta la potenza del re dei social network). Il punto di partenza, è il caso di ricordarlo, è la crescita del traffico mobile. Ora, aprire su mobile, per esempio da un social media, un link ad un articolo pubblicato su un sito esterno richiede un tempo di attesa medio di otto secondi: quasi un’eternità per l’utente. Perciò, l’idea alla base di Instant Articles è quella che le testate giornalistiche producano contenuti nativi per il social media anziché linkare l’articolo dal proprio sito web. Per le testate una perdita di “sovranità” sui propri contenuti in cambio di ossigeno pubblicitario. Perché gli articoli nascono su Facebook e lì l’utente rimane invece di visitare il sito della testata. Così, sui nostri dispositivi mobili, da qualche tempo, abbiamo visto comparire, sulle nostre timeline Facebook, gli articoli nativi dal caricamento istantaneo, corredati di grandi immagini, video ecc.
Va detto, innanzitutto, che l’idea che circola della nuova funzionalità di Twitter è che la sua timeline non sarà sconvolta. I post continueranno ad apparire nella loro storica composizione in 140 caratteri, hashtag, shortlink, immagine o video. Ma con in più l’opzione di espanderli nella loro interezza che potrebbe raggiungere i 10.000 caratteri. La prospettiva è stata “non smentita” e quindi, in qualche modo, avvalorata, da un tweet del 5 gennaio di Jack Dorsey, altro co-fondatore e attuale CEO del social network.
Come nota Will Oremus, firma senior di “Future Tense”, blog tecnologico di “Slate”, insomma, qualcosa di non tanto distante dagli Instant Articles di Facebook.
“Inutile!” tuonano alcuni. Le piattaforme di blogging esistono già e allora a cosa servono dei tweet lunghi? C’è Medium, per esempio, lanciata da Evan Williams, altro co-fondatore di Twitter – che dà spazio a contributi amatoriali e professionali anche di alto livello e che si attestano, quindi, a un livello analogo a quello di Twitter, classificati per argomento e non per autore – che permette la condivisione e la raccomandazione dei post e che è stata scelta per pubblicare i propri contributi da personaggi di grosso calibro come, per fare un solo esempio, la front runner per la nomination democratica Hillary Clinton.
Alt! Perché l’espansione dei tweet potrebbe mettere insieme due bisogni: quello commerciale di Twitter di mantenere i propri utenti/autori all’interno della piattaforma (obiettivo centrale di un’iniziativa come Instant Articles della superpotenza Facebook) e agli utenti stessi di lanciare storie più articolate sul palcoscenico del loro social media di riferimento. Ma con in più, rispetto all’universo blindatissimo di Instant Articles, l’opzione di mantenere il link a una storia più completa sul proprio sito web. Non una cosa da poco.
10.000 caratteri sono, tra l’altro, un’enormità, in termini giornalistici (quest’intero articolo è composto da 6.397 battute). Per cui già una porzione di questa quantità potrebbe essere un vasto spazio di manovra per un utente professionale.
E ancora, questa è un’opzione in più per i marketers, al servizio di imprese e organizzazioni, per dare nuovo respiro al proprio content marketing, in un universo che resta aperto e in cui progettare e lanciare storytelling in un modo più articolato. Così come per ricavare statistiche più dettagliate sul comportamento degli utenti. Un insieme di innovazioni, nell’universo di Twitter, che potrebbe riaccendere la luce dell’ottimismo negli investitori. E, forse, una nuova apertura per gli editori alla ricerca di spazio nelle praterie dei social media ma angosciati dalla perdita di controllo sulla propria materia prima: i contenuti.