La Rai che vorrei. E. Novelli: ‘Servizio pubblico e informazione nella gabbia dei talk-show
Importante svincolarsi dal cappio degli ascolti per lavorare su talk-show e nuove tipologie di programmi in stretta relazione con le occasioni offerte dalla multimedialità e dalla social-tv. Di Edoardo Novelli, Professore Associato Università Roma Tre. Dal sito Key4biz del 7 aprile 2016
Il 6 Maggio 2016 scade l’attuale Convenzione tra Rai – Radiotelevisione Italiana e lo Stato italiano. Ed è per questo che abbiamo deciso di lanciare su www.key4biz.it un confronto che contribuisca concretamente alla Consultazione attraverso la pubblicazione di articoli di studiosi, addetti ai lavori, esperti, che offra idee e sollecitazioni ai rappresentanti del Ministero dello Sviluppo Economico, alla Commissione Parlamentare di Vigilanza, ai vertici Rai.
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Lavorare senza prevenzioni sul macrogenere dei talk-show e sperimentare nuove tipologie di programmi in stretta relazione con le occasioni offerte dalla multimedialità e dalla social-tv, svincolandosi dal cappio degli ascolti, sono due opzioni per migliorare la qualità dell’informazione ed ampliare il ruolo della Rai quale player centrale dell’arena pubblica e quale propulsore di processi partecipativi, adeguando così l’offerta di un Public Service Media alle nuove realtà politiche, sociali e tecnologiche dell’Italia del secondo decennio del XXI secolo.
L’analisi dell’offerta televisiva e degli ascolti di novembre 2015, preso quale mese campione, rivela che le sette principali emittenti nazionali hanno trasmesso trentadue trasmissioni rientranti nel macrogenere del talk show politico, che hanno generato 524 puntate (repliche incluse), ottenendo in termini di audience complessiva oltre 450 milioni di telespettatori. Sono dati aggregati che possono essere maggiormente raffinati e scomposti ma che nella loro evidenza numerica e quantitativa confermano da un lato l’importanza del talk-show politico nel determinare il tono, i temi e le forme del confronto pubblico e dall’altro che il macrogenere è ben lungi dall’essere giunto al punto terminale della sua esistenza, come da molte parti forse troppo frettolosamente sanzionato.
Ciò detto, resta aperta la questione sul giudizio dei talk-show proposti dal Servizio Pubblico in termini di qualità della mediazione giornalistica, aumento del livello di partecipazione, obiettività, rafforzamento del senso di cittadinanza: in una parola, sulla loro funzione informativa e civica. Il dato infatti che troppo spesso emerge con chiarezza è la sclerotizzazione del racconto della politica, il suo impoverimento in schemi, modelli, maschere collaudate e ripetitive, che tendono ad esaltare aspetti quali la contrapposizione, lo scontro, la polemica, a discapito di letture ed analisi più articolate e complesse della realtà e della società italiana. Premesso che la televisione non è neutra, ma interviene sui suoi contenuti con la propria logica e le proprie routines produttive, alterandoli, modificandoli, spettacolarizzandoli e che i talk-show, sin dalla loro introduzione nella programmazione italiana non si sono mai sottratti a questa regola, accusare i talk-show di mostrare il lato peggiore della politica rendendola volgare, polemica, incentrata intorno ad aspetti personalistici, significa imputare al mezzo alcuni aspetti della crisi che ha afflitto la politica e le forme della nostra democrazia rappresentativa a partire dalla seconda parte del secolo scorso.
Nell’elaborazione dei diversi modelli informativi e di rappresentazione di un’arena pubblica che negli anni si sono succeduti, televisione e politica hanno collaborato e partecipato in maniera proporzionale ai loro rispettivi rapporti di forza del periodo. Più la politica, la sua funzione e le sue istituzioni sono andate indebolendosi, più la televisione ha acquisito un ruolo attivo nell’interpretazione e nella messa in scena del confronto, rivendicando anche un ruolo di rappresentanza dell’opinione pubblica un tempo non concessole.
Fuorviante sarebbe l’idea che la strada per migliorare la qualità dell’informazione di un Servizio Pubblico passi da un semplice ridimensionamento dell’offerta di talk-show. Si tratterebbe di una scelta che non solo priverebbe le Rai di un genere ancora capace di raccogliere – come visto – ogni settimana svariati milioni di telespettatori e ingenti introiti pubblicitari, ma che renderebbe i partiti totalmente afoni. Il bisogno di spazio televisivo offerto dalla gran quantità di talk show presenti è un’esigenza prioritaria di una politica che si è progressivamente ritirata dai luoghi e dagli spazi reali del paese demandando gran parte della propria comunicazione alla funzione di supplenza svolta dalla televisione.
Punto di partenza per ripensare la funzione informativa del Servizio pubblico e al suo interno del talk-show politico potrebbe essere la presa d’atto che questo macrogenere è oggi sottoposto ad un profondo processo di ridefinizione che coinvolge durate, formati, meccanismi, protagonisti, messa in scena. Basti accennare alla tendenza comune ad alcuni dei principali programmi ad abbandonare la monotematicità e l’unicità del salotto/parterre a favore di diversi segmenti autonomi, avvicinandosi sempre più alla formula della rubrica. All’interno di questa più generale evoluzione del macrogenere, una nuova frontiera sembra essere rappresentata dall’integrazione con la rete e dalla contaminazione della macchina narrativa e informativa con le opportunità offerte dai social network. La social tv rappresenta un allargamento della soglia di partecipazione e del coinvolgimento che, ad un livello più basso, offre la possibilità ai telespettatori di commentare in tempo reale i programmi e di partecipare ad una discussione fra gli utenti della rete – secondo il fenomeno del second screen – e, ad un livello più elevato di interattività, consente di dialogare con gli ospiti in studio, di partecipare a sondaggi in diretta e di votare, intervenendo sullo svolgimento della trasmissione.
L’analisi dei principali talk politici italiani rivela che sebbene con gradi e livelli di intensità differenti, l’evoluzione social del macrogenere è in atto. Lungi dal perdere la centralità all’interno del nuova arena pubblica multimediale, l’informazione televisiva sembra orientarsi verso il coinvolgimento e l’aggregazione di comunità sociali attive sul web, dotate di pratiche di condivisione e relazione, fungendo da collettore di luoghi e arene di discussione presenti in rete. Il come avverrà e con quali risultati dipenderà da come questo percorso sarà incentivato e guidato, ma si tratta di una opportunità che soprattutto il Servizio pubblico dovrebbe saper cogliere.
Continuare poi a valutare i talk politici unicamente dal punto di vista economico – costi di produzione e ricavi pubblicitari – e non anche in termini di ritorni informativi e civici, rischia di essere un grande limite. Applicare da parte del Servizio Pubblico anche a questa tipologia di programmi il principio della costruzione e vendita dei target pubblicitari, tale e quale alle televisioni commerciali, può rivelarsi un errore. E’ noto che anche una platea ristretta di telespettatori può essere economicamente vantaggiosa per un’emittente, se omogenea dal punto di vista socioculturale e concentrata nelle fasce economiche medio-alte o nelle aree geografiche più ricche del Paese. Proprio per questa ragione, nonostante il calo degli ascolti patito dai singoli programmi, molti dei talk-show politici che sono seguiti da un pubblico adulto, istruito, benestante e residente nei grandi centri urbani del centro-nord, continuano ad essere economicamente vantaggiosi per le emittenti, che possono vendere agli inserzionisti pubblicitari un platea compatta di forti consumatori.
Se però, anziché all’interesse economico si antepone la qualità dell’informazione e cioè l’incentivazione dei processi di inclusione sociale e partecipazione e il contributo alla comprensione dei temi di interesse pubblico e politico da parte dei cittadini/telespettatori, la compattezza del target anziché un vantaggio si rivela un limite. Sotto questo particolare punto di vista l’interesse di un programma di informazione e di un talk-show proposti da un servizio pubblico dovrebbe essere non solo la capacità di raggiungere il maggior numero possibile di persone ma anche la loro trasversalità e disomogeneità, in rappresentanza delle molteplici componenti e anime della società. Ampliare l’arena pubblica, interessando nello stesso tempo giovani e anziani, istruiti e meno istruiti, residenti nelle grandi città del nord e nei piccoli centri del sud, interessati alla politica e disinteressati. Allargare, anziché restringere, includere anziché selezionare. Impresa difficile, tanto più in una fase di disaffezione dalla politica, ma forse proprio per questo ancora più importante, che richiederebbe una profonda revisione del genere, intervenendo sul suo linguaggio, sulla sua drammaturgia, sui suoi meccanismi.
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L’articolo si basa e riprende spunti e analisi sviluppati dall’autore nel volume “La democrazia del talk-show”, recentemente pubblicato da Carocci al quale si rimanda.
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