Il grande debito del nostro tempo
È prestare ascolto. Districarsi nell’ecosistema mediatico significa sottrarre dall’ambiente alcuni ‘rumori di fondo’ e mantenere pochi segnali. Pena il sopravvento del ‘controllo’ sull’ascolto e l’infelicità.
di Giacomo Buoncompagni
da Il Telespettatore N° 8/10 2019
L’ascolto è un elemento fondamentale nel processo comunicativo-relazionale. Tale processo, nasce, si sviluppa e rischia di tramontare senza l’ascolto, escludendo qualsiasi forma di apertura all’ Altro, rinunciando quindi a comprendere il contesto ed ampliare la propria esperienza comunicativa.L’ascolto è tanto scontato, quanto complesso.
È talmente scontato, che in ogni manuale di comunicazione viene spesso inserito nei primi capitoli, con un breve paragrafo poi si tenta di risolvere in poche righe la questione; è talmente scontato, che tutti ne parlano e ne evidenziano la potenzialità ,ma pochissimi sanno in realtà metterlo in pratica.
Allo stesso tempo è talmente complesso e potente che la sua esclusione dal processo comunicativo potrebbe in pochi minuti far saltare accordi economici, alleanze politiche, relazioni affettive e tutta la nostra autostima e i progetti personali. Si, perché esiste anche un ascolto di Sé.
Ogni forma di comunicazione, verbale, para-verbale, non verbale o mediata dalle nuove tecnologie è preceduta e guidata da un’emozione. Il valore del nostro messaggio è esso stesso emozione, tutto ciò che diciamo, scriviamo, al di là che sia immediatamente comprensibile o meno, è il risultato di un flusso emotivo precedente.
Se il messaggio è chiaro, la nostra è un’emozione “sana”, facilmente traducibile, positiva; se la nostra comunicazione è incerta, confusa, altrettanto lo sarà il nostro stato emotivo.
Quest’ultimo scenario sembra oggi emergere maggiormente e forse, la confusione emotiva, e quindi comunicativa, dipende molto dalla nostra presunzione e/o capacità, se cosi vogliamo definirla, di controllare e personalizzare la propria comunicazione, decidendone ritmo, tempo, spazio e destinatario.
Questa nuova forma di (Falso) Potere, acquisito soprattutto grazie alla natura pubblica e interattiva delle nuove tecnologie, ci dona l’illusione dell’essere Maestri della Comunicazione, grandi persuasori, in grado di guidare, controllare e rifiutare nel giro di pochi secondi contenuti e persone connesse nel grande sistema della rete. Più semplicemente, controlliamo il tempo e lo spazio comunicativo.
Il falso potere del controllo della comunicazione esclude automaticamente l’ascolto, in quanto quest’ultimo non ha sempre ritmo, tempi e spazi, cosi scontati da comprendere e soprattutto essi non sono mai pre-definiti; l’ascolto non si può controllare, ha bisogno di essere coltivato, allenato, sperimentato, in quanto muta ogni volta che si costruisce una comunicazione.
Di conseguenza stiamo perdendo tale capacità, o forse non l’abbiamo mai sviluppata in maniera sufficiente e a breve sarà difficile recuperarla: la parola “ascolto” potrebbe anche scomparire dai manuali di comunicazione ed essere sostituito dalla parola “controllo”.
E mentre quest’ultimo tende ad emergere con tutta la sua forza, mostrandosi come falso potere a disposizione di ognuno di noi, assistiamo passivamente al tramonto dell’ascolto in ogni nostra comunicazione.
E a questo segue l’inf-felicità. Qual’è oggi la causa più grande della nostra infelicità?
La comunicazione, o meglio, la non comunicazione.
Paradossalmente il comunicare che ha, per sua definizione, l’obiettivo di creare relazione, cooperazione, condivisione, apertura all’altro, sta provocando sempre di più un effetto “tribù”, svelando lati patologici ed egoistici. Stiamo con chi ci compiace, discutiamo con chi la pensa come noi, evitando in tutti modi il contagio di idee e dunque il confronto, riducendo tutto a semplice scambio con effetto immediato e fine certa. Perché viene a mancare, cosi pare, il tempo, la voglia, la capacità, l’intenzione di ascoltare e costruire ma la realtà è che questa condizione
è molto comoda, perché ti rende cieco e ti allontana da ogni fatica.
Essendo la nostra comunicazione sempre più mediata e digitalizzata, riusciamo tranquillamente a rafforzare questa condizione di autismo comunicativo, controllando e personalizzando le nostre conversazioni gestendo spazio e tempo del processo relazionale, illudendoci di avere potere sul nostro interlocutore, condannato all’attesa.
Ma non ci si rende conto che questa situazione di non-ascolto, costruita ad hoc, genera un livello notevole di frustrazione, perché appiattisce sul piano dell’emotività .
Chi pretende di gestire la comunicazione vivrà sempre nell’illusione della compagnia, del potere e del controllo, per questo è il primo ad essere condannato all’infelicità.
L’infelicità è comodità e similarità, la felicità è rischio, creatività, è un “tendere a”, è un superamento continuo degli ostacoli attraverso la buona comunicazione e la gestione del proprio tempo e del tempo dell’altro e per l’altro, condividendo spazi aperti alle difficoltà e alla differenza.
Uscire dal guscio dell’infelicità però è possibile.
In che modo?
Riconoscendo il valore del “tempo della conversazione”, elemento molto importante, in quanto base solida per una società dell’ascolto e dell’attenzione, in grado di dare inizio a un “tipo” di tempo oramai scomparso: il “tempo dell’altro per l’altro.
Il tempo all’interno del web raramente è sinonimo di dialogo, strategia, azione e ascolto, ma anche lo fosse, bisogna essere in grado di saperlo gestire e questo significa innanzitutto iniziare ad accettare che il contesto ipermediatizzato in cui ci muoviamo si nutre di opinioni, stati emotivi differenti che devono necessitano didiventare strumento di maggior confronto e negoziazionee non di odio e falsità, seguendo e accettando le “logiche dei media”.
La nuova competenza mediale da sviluppare riguarda la capacità di “compartimentare il nostro tempo di convers-azione”, saper costruire una risposta sempre meno istintiva ed emotiva, ma più ragionata, approfondita, sincera, basata su una comunicazione assertiva e quindi chiara ed efficace senza bisogno di prevaricare il nostro interlocutore.
È questa la nuova sfida contemporanea: prendersi tempo per conversare anche in Rete.
Altro punto fondamentale riguarda il rispetto.
Ciò che generalmente intendiamo per “rispetto” le relazioni tra persone, e buone pratiche della convivenza, l’osservanza delle regole, ma più precisamente “rispetto” significa “guardare indietro”, o meglio voltarsi a guardare.
Dunque, dare spazio al mio interlocutore, prestargli attenzione. Questo è possibile andando a decostruire quell’idea patologica secondo cui il termine “connessione” coincida oggi con quello di “relazione”. La connessione è un legame tecnico, personalizzabile, che possiamo controllare, che nasce in uno spazio e in tempo poco definiti, basato su una condivisione dei contenuti, dove ogni cosa punta al soddisfacimento immediato dei nostri bisogni; la relazione, invece, è un legame affettivo, i cui protagonisti sono ben definiti.
La relazione è un legame basato su una comunicazione interpersonale, non mediata, che va coltivata, che non possiamo gestire perché fatta di emotività, passione, paura, ansia e successo e sconfitta e che il miointerlocutore percepisce, vive conme; è un legame fondato sulla conversazione e sugli sguardi, all’interno di un contesto chiuso, in un tempo limitato.
Sconfiggere l’infelicità e violenza online-offline significa colmare queste mancanze legate al riconoscimento del valore e al rispetto del nostro comunicare, del nostro condividere.
Vuol dire passare da una “cultura della connessione” a una “cultura della relazione”, riconoscendo l’umanità “dietro” e “di fronte” al contesto digitale.
Comunicare bene..fa bene, la felicità quindi è buona comunicazione.