Chiesa e media una lunga tradizione

Chiesa e Internet: costituisce un binomio che continua a catalizzare l’attenzione di studiosi, ricercatori, esperti in comunicazione e non solo. Il saggio di Rita Marchetti, docente al Dipartimento di scienze politiche dell’Università di Perugia, ( ripreso dal volume “La Chiesa in internet” Rita Marchetti- Carocci editore), offre un contributo prezioso per conoscere, dettagliatamente, il rapporto della Chiesa con i processi di modernizzazione derivanti dallo sviluppo dei media digitali. Dal n.37 di gennaio 2016 della rivista trimestrale dell’Aiart La Parabola.

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Chiesa e media: una lunga tradizione

di Rita Marchetti

Tre culture, tre contesti, tre atteggiamenti
Fino all’apertura dell’account Twitter del papa avvenuta il 12 dicembre 2012, quando la Chiesa si mostrava all’avanguardia nell’uso del web suscitava stupore. Giornalisti, teologi cristiani e accademici spesso hanno trattato l’argomento in maniera largamente approssimativa (Hutchings, 2012). La decisione del papa di aprire un account nella piattaforma di microblogging ha generato tanto clamore da essere salutata come un cambiamento epocale, ex abrupto, nel rapporto della Chiesa con i media (Rainie, Wellman, 2012). Fino ad allora, la Chiesa che utilizzava internet “faceva notizia” perché costituiva un’infrazione del presupposto che fosse estranea alle innovazioni e arroccata sulla difensiva rispetto a trasformazioni che potevano mettere in discussione valori e posizioni consolidate nel tempo. Tale reazione di stupore era dovuta verosimilmente, oltre che al pregiudizio sulla chiusura della Chiesa nei confronti dei processi di modernizzazione della società, alla consapevolezza della verticalità che contraddistingue la sua struttura organizzativa, che la pone, almeno apparentemente, in contrapposizione alla logica orizzontale di internet.

Eppure, come ha sottolineato Heidi Campbell (2012, p. 90, trad, mia), «la Chiesa Cattolica è stata presumibilmente la prima istituzione religiosa ad abbracciare internet, a creare un sito web e a dettare una politica ufficiale sull’uso di internet per i membri delle sue comunità». A ben guardare, la lungimiranza della Chiesa nel comprendere la portata rivoluzionaria delle innovazioni tecnologiche, nello specifico nel campo dei media, non è una novità. La Chiesa ha colto in anticipo rispetto ad altre istituzioni del suo tempo la carica rivoluzionaria di invenzioni come la stampa, la radio, il cinema, la televisione. Il primo libro stampato è stato la Bibbia; la televisione italiana delle origini era fortemente impregnata e orientata dalle direttive vaticane, per fare solo due esempi fra i più noti.

Campbell sostiene che il rapporto precoce instaurato dalla Chiesa cattolica nei confronti di internet si deve alla «tradizione della Chiesa di riconoscere quanto le nuove tecnologie producano effetti sulla cultura religiosa e sulla società più in generale e quanto possano essere utili per il perseguimento dei propri scopi» (Campbell, 2010a, p. 9, trad. mia).

Nel corso della storia, tuttavia, alle intuizioni che hanno favorito la costruzione di questo rapporto favorevole non sempre hanno fatto seguito comportamenti di accettazione. L’Index dei libri proibiti e della censura imposta su libri che propagandavano idee al di fuori della tradizione cristiana ai tempi di Gutenberg è l’esempio più noto dei problemi intercorsi nel rapporto Chiesa-media; un rapporto indubbiamente controverso, frutto di una lunga tradizione di comunicazione caratterizzata da intuizioni da una parte e preoccupazioni dall’altra e che può essere descritto in chiave diacronica nei termini di una seppur lenta ma continua evoluzione sempre più in positivo.

Ciò che accomuna tutte le fasi di questa storia è il fatto che la Chiesa abbia generalmente assunto un atteggiamento favorevole nei confronti dei media, visti come opportunità di evangelizzazione, ovvero come strumento prezioso per annunciare il Vangelo. Allo stesso tempo, costanti sono stati i timori circa i contenuti che i media veicolano e le ripercussioni che la loro adozione potrebbe apportare sull’autorità di cui l’istituzione è investita. Differenti sono state, quindi, le risposte che la Chiesa ha dato ai mutamenti che si sono avvicendati nel corso del tempo e che dipendono dalle peculiarità di ciascun nuovo medium e dalle caratteristiche dei contesti socioculturali in cui hanno fatto la loro comparsa. Possiamo sintetizzare in tre fasi l’evoluzione storica di tali atteggiamenti:
a- intuizioni e chiusura nei confronti della stampa (sia nel Cinquecento sia successivamente con la diffusione del pensiero illuministico e delle rivoluzioni borghesi);
b- ambivalenza e cautela, prima con il cinema e la radio, poi con la televisione (Novecento);
c- apertura e accettazione con internet e i media digitali (dalla seconda metà degli anni Novanta a oggi).
Per ricostruire questa evoluzione ho scelto di analizzare i principali documenti ecclesiali sulla comunicazione in maniera diacronica, alla luce dei comportamenti effettivamente tenuti dalla Chiesa nei diversi periodi storici.

Chi, infatti, intende indagare il rapporto della Chiesa con i media, la sua storia, i suoi meccanismi, i cambiamenti intercorsi negli anni e nei secoli non può prescindere dal prendere in considerazione gli interventi del magistero cattolico che, nella loro successione cronologica, diventano riferimenti significativi per l’analisi che mi accingo a illustrare nei prossimi capitoli. Inoltre, qualsivoglia indagine di uno dei tanti “mondi” cattolici (associazioni, movimenti, parrocchie, gruppi) deve tener conto del fatto che la Chiesa, pur essendo una, è molto diversificata al suo interno. Si tratta di una caratteristica che già è stata descritta nei termini di “unità nella diversità”.

La Chiesa è un’organizzazione complessa, con una gerarchia centrale che «sancisce un insieme di regole e norme interne» (Pace, 1007, p. in) per un molteplice e variegato universo cattolico. Una buona indagine non può, dunque, fare a meno di considerare quanto dice e fa chi di questa unità è garante.

Intuizioni e chiusure
Con la stampa, abbiamo visto, la Chiesa adottò inizialmente un atteggiamento estremamente positivo, intuendone da subito il grande potenziale: l’invenzione di Gutenberg rappresentava un evento rivoluzionario nella storia dell’uomo che poteva essere sapientemente utilizzato per ampliare e rinnovare le forme attraverso cui diffondere la parola di Dio. Essa rendeva per la prima volta possibile una certa uniformità di culto, la standardizzazione e la fissazione della liturgia. Il cattolicesimo fu la prima istituzione religiosa a farne uso, ricorrendo all’appoggio degli stampatori per la crociata contro i turchi prima di Lutero ed esaltando la nuova tecnologia come un’invenzione provvidenziale che dimostrava la propria superiorità in confronto all’ignoranza dei miscredenti ottomani. Come abbiamo detto, il primo libro a essere stato stampato con la nuova arte tipografica a caratteri mobili fu la Bibbia in latino, detta “delle 41 linee”. Solo in Italia tra il 1465 e il 1494 furono prodotte ben 735 edizioni di 248 libri religiosi.

Tuttavia, il connubio non durò a lungo. Solo il protestantesimo, infatti, riuscì a sfruttare fino in fondo il potenziale della stampa. Esemplificativa è l’iconografia del tempo: i protestanti erano raffigurati con i libri in grembo, mentre i cattolici tenevano in mano i rosari (Eisenstein, 1995). Per comprendere le ragioni del cambiamento di atteggiamento occorre guardare al contesto storico in cui è stata inventata la stampa tipografica.

Per secoli, la Chiesa è stata la roccaforte del sapere: la trasmissione della cultura affidata agli amanuensi ha fatto sì che potesse essere conservata la maggior parte dei testi antichi. Grazie al loro paziente lavoro di copiatura sono giunte fino a noi opere considerate pietre miliari della tradizione occidentale: la letteratura greca e quella latina, altrimenti, sarebbero andate perdute (Baldini, 1003). La cultura umanistica cristiana europea è uscita dunque vittoriosa dal Medioevo e dall’età classica. Quando arrivò la stampa, il ruolo culturale della Chiesa era dominante. Forte dell’egemonia detenuta nel corso del Medioevo, la Chiesa faticava ad accettare l’avvento di un mezzo che dava voce ad altre istanze della società e a un fermento di rinnovamento diffuso, poiché abbracciare senza riserve la novità avrebbe significato mettere in discussione il potere detenuto in maniera quasi esclusiva fino ad allora e confrontarsi con nuovi valori e idee che potevano essere in contrasto con la tradizione cristiana.

La predisposizione inizialmente positiva da parte della Chiesa nei confronti del nuovo mezzo svanì quindi rapidamente, soprattutto perché la produzione libraria e la sua circolazione iniziarono a estendersi anche al di fuori degli ambiti accademici e religiosi. La nuova invenzione rappresentava una sfida ai poteri esistenti: quello che era stato per secoli un dominio esclusivo stava volgendo al termine. E la Chiesa scelse la via della chiusura. Il regime comunicativo della stampa e la sua velocità di diffusione imponevano un riordinamento delle armi impiegate dall’ortodossia religiosa per combattere il diffondersi di posizioni eterodosse. Forme di censura erano comparse anche nella cultura manoscritta ma, nell’antichità, dato il numero ridotto delle copie delle opere incriminate e la loro esigua capacità di influenzare l’opinione pubblica, la censura aveva avuto un ruolo meno marcato di quello che si venne a creare dopo l’avvento della stampa tipografica. Ora, i nemici da combattere apparivano più pericolosi rispetto a quanto fossero in passato. Fu così che venne istituito l’Index librorum prohibitorum, la cui prima edizione ufficiale, frutto di alcune discussioni del Concilio di Trento (1545-63), risale al 1559 per ordine di Paolo IV (Bernardelli, Pellerey, 1999). Con esso veniva stabilito il principio imprimatur, cioè della censura curiale sulle opere di tipografia: l’Index raccoglieva i nomi degli autori e delle opere ritenuti pericolosi per la fede cattolica e per la morale. Il fatto di perdere progressivamente il controllo sulla cultura creò crescenti timori nella Chiesa, che si dimostrò ferma nel proprio immobilismo e conservatorismo e indurita dalla querelle con i protestanti (Marchessault, 2002). Quella della censura, da un lato, fu una scelta cautelativa, finalizzata a impedire il contatto con tutto ciò che non era conforme alla sua ortodossia, a certi valori e a regole prestabilite di cui l’autorità si faceva garante, dall’altro, intendeva favorire la promozione delle opere a contenuto religioso in chiave evangelizzatrice.

Un atteggiamento analogo la Chiesa assunse anche successivamente, tra il XXVIII e il XIX secolo, in coincidenza delle rivoluzioni borghesi e della dif-fusione del pensiero illuministico, guardando con ostilità e sospetto le gaz-zette che propagandavano il confronto delle idee e il libero arbitrio fuori dal principio d’autorità e di tradizione. Aveva così inizio quel controverso rap-porto della Chiesa con i media che fra intuizioni, chiusure e battute d’arresto è arrivato fino a oggi, riflettendo un più ampio e problematico confronto con i cambiamenti della modernità. Di questi atteggiamenti tengono traccia i primi documenti ecclesiali che si occupano dei mezzi di comunicazione i quali raccontano, per lungo tempo, una storia fatta di difesa delle proprie posizioni e di attacco verso gli avversari, verso coloro cioè che propagandavano punti di vista eterodossi e valori estranei alla cultura cattolica. L’enciclica Christianae Reipublicae, promulgata nel 1766 da papa Clemente XIII e dedicata ai problemi legati alla letteratura e all’editoria, si scaglia perentoriamente contro le opere a stampa di carattere anticristiano destinate a produrre effetti negativi e duraturi nel tempo.
Nel 1832 è la volta di Gregorio XVI: l’enciclica Mirari Vos si esprime contro la libertà di stampa, considerata un pericolo per l’autorità della Chiesa e per l’indiscutibilità dei suoi insegnamenti e dei suoi principi. Alla «pessima, né mai abbastanza esecrata e aborrita libertà della stampa» non si concede neppure il beneficio del dubbio che fra tanti opuscoli, libri e ogni sorta di divulgazione di scritti a stampa potesse esserci qualcosa di positivo. Mirari Vos è una dichiarazione dai toni decisi di condanna delle libertà di coscienza, d’opinione e di stampa che vuole combattere i movimenti anticlericali e liberali dell’epoca. White, studioso cattolico di comunicazione, sostiene che in un solo colpo Gregorio XVI andava contro i fondamenti principali della modernità. In particolare, la libertà di stampa era intesa come una “tribuna politica” non controllata da un’autorità superiore; lo stile leggero e piacevole e la novità continua degli scritti si scontravano con la cultura e la tradizione del cattolicesimo (White, 1987). Vedremo come il timore per l’ingresso nella società di nuovi valori e per la possibilità di mettere in discussione l’autorità stessa della Chiesa costituirà una costante nel rapporto Chiesa-media, ri-presentandosi anche con l’avvento del cinema e della TV.

Accettazione e cautela
Durante tutto il XIX secolo e la prima metà del XX, la Chiesa esercitò una forte censura e adottò un sistema di valutazione rigido, soprattutto dal punto di vista morale, non solo sulla stampa, ma su ogni tipo di divertimento collettivo, compresa la produzione cinematografica.

I primi riferimenti ai mezzi di comunicazione di massa del XX secolo, prima cinema e radio, poi televisione, sono rintracciabili nella lettera enciclica Divini Illius Magistri del 1929, dedicata all’educazione dei giovani, in cui Pio xi si esprime a proposito dei libri, della radio e del cinema. Il tono è molto simile a quello utilizzato a suo tempo per la stampa: «ai nostri tempi, si fa necessaria più estesa e accurata vigilanza, quanto più sono accresciute le occasioni di naufragio morale e religioso per la gioventù inesperta, segnatamente nei libri empi o licenziosi, molti dei quali diabolicamente diffusi a vil prezzo, negli spettacoli del cinematografo, e ora anche nelle audizioni radiofoniche, le quali moltiplicano e facilitano per così dire ogni sorta di letture, come il cinematografo ogni sorta di spettacoli».

A poco a poco, però, la Chiesa iniziò a rendersi conto che sarebbe stato impensabile sostenere una posizione di chiusura verso i mezzi di comunica-zione che, sempre più, stavano acquisendo un posto importante nelle abitudini quotidiane delle persone. La potenza del cinema che parlava mediante immagini era sempre più dirompente tanto che la Chiesa arrivò a considerarlo «il più grande ed efficace mezzo di influenza, ancora più efficace della stampa» (Lettera della Segreteria di Stato Vaticano al presidente dell’Office Catholique International du Cinéma, 27 aprile 1934).

La prima enciclica pontifìcia esclusivamente dedicata ai mezzi di comunicazione del XX secolo, che porta la firma di Pio XI, è Vigilanti Cura del 1936. Essa mostra una prima, piccolissima apertura. Pur limitandosi a un solo medium – il cinema – e utilizzando un linguaggio che pone l’accento sul moralismo come base per ogni tipo di valutazione, il documento si esprime in termini non totalmente negativi. Il papa parla del cinema prendendolo ad esempio dei moderni mezzi di comunicazione elettronici. Pur utilizzando un forte tono di denuncia nei confronti degli effetti negativi dei media, il documento lascia spazio a un timido positivo punto di vista. Dice, infatti, il papa che i media «possono suscitare nobili ideali di vita, diffondere preziose nozioni, fornire maggiori conoscenze della storia e delle bellezze del proprio e dell’altrui paese, presentare la verità e la virtù sotto una forma attraente, creare, o per lo meno favorire, una comprensione fra le nazioni, le classi sociali e le stirpi, promuovere la causa della giustizia, ridestare il richiamo della virtù e contribuire quale aiuto positivo al miglioramento morale e sociale del mondo». A partire proprio da questo documento si diffonderà la pratica di promuovere il cinema di qualità attraverso la proiezione di film nelle sale cinematografiche di proprietà delle parrocchie.

Il primo pronunciamento pontificio che nella sua forma più autorevole si occupò oltre che di cinema anche di radio e TV fu l’enciclica Miranda Prorsus, pubblicata l’8 settembre 1957 da Pio XII. Si tratta del secondo documento sulle comunicazioni del XX secolo. Da un lato, si riconoscevano le potenzialità dei mezzi di comunicazione elettronica per l’evangelizzazione e la diffusione della morale della cultura cattolica; dall’altro, si esprimeva la preoccupazione che questi stessi mezzi potessero essere utilizzati per diffondere valori negativi per la società. Ponendosi nel solco delle posizioni espresse in Vigilanti Cura, Miranda Prorsus, sostenuta dall’impegno a favore della comunicazione sociale assunto da Pio XII – al quale si attribuiscono oltre 60 discorsi e testi sulle diverse aree e questioni della comunicazione – è ritenuta una preziosa risorsa alla base del documento che uscirà poi dal Concilio Vaticano II. In essa Pio XII esprime con chiarezza la sua visione dei media, decisamente più aperta rispetto a quella fin lì adottata dalla Chiesa. Si legge, infatti, nel documento: «[le meravigliose invenzioni tecniche] servono o direttamente, o mediante artifici di immagini e di suono, a comunicare alle moltitudini, con estrema facilità, notizie, idee e insegnamenti, quali nutrimento della mente, anche nelle ore di svago e di riposo. […] anche più della stampa, i mezzi audiovisivi offrono possibilità di comunicazioni e di scambi tra gli uomini».

L’importanza dei media per la società e la loro utilità per l’opera evan-gelizzatrice della Chiesa sono nuovamente sottolineate nella lettera mo- tu proprio Boni Pastoris pubblicata da Giovanni XXIII nel 1959, solo due anni dopo Miranda Prorsus . La lettera stabilisce le norme per il funzionamento della Pontificia commissione per la cinematografia, la radio e la televisione e annovera i media tra «i fattori della civiltà moderna che influiscono sulla vita spirituale dell’uomo». Si riconoscono al cinema, alla radio e alla televisione «grandi possibilità […] per la diffusione di una più alta cultura, di un’arte degna del suo nome e soprattutto della verità», senza tuttavia mai dimenticare di sottolineare i pericoli che ne sarebbero potuti derivare.

I timori per gli effetti generati da un mezzo come la TV non furono molto dissimili da quelli emersi ai tempi dell’invenzione della stampa, e sono ancora di carattere morale. Analoga è anche la consapevolezza del fatto che i media hanno la capacità di incidere e di modificare la società. Diverso però è il medium che parla per immagini, diversi i tempi, diversa è la reazione della Chiesa. Con la nascita e la diffusione della TV cambiava la vita familiare e sociale e nascevano nuovi bisogni; si assisteva contemporaneamente a un processo di secolarizzazione e modernizzazione destinato a protrarsi fino ai nostri giorni. In questo contesto, un atteggiamento differente da parte della Chiesa verso i mass media era forse inevitabile. Soprattutto in considerazione del fatto che era «tramontato il tempo in cui la Chiesa poteva essere ascoltata quando pronunziava direttive nel campo economico, politico, sociale» (Martina, 1987, p. 36). Di fronte a una televisione che rivoluzionava la cultura, le abitudini, lo stile di vita di milioni di persone, l’atteggiamento tenuto dalla Chiesa fu di accettazione e cautela, che si tradussero in tentativi di orientamento dello sviluppo della televisione, come testimoniano le prime dirigenze rai.

I primi anni della TV in Italia furono profondamente segnati dalla cultura cattolica: Giuseppe Spataro, Filiberto Guala ed Ettore Bernabei sono nomi indicativi in tal senso. Spataro, che fornì un importante contributo alla fondazione della Democrazia cristiana, fu presidente della rai dal 1946 al 1951. Guala, proveniente dalle file dell’Azione cattolica, fu amministratore delegato nei primissimi anni della televisione italiana, mentre Bernabei, di area democristiana, è stato direttore generale della RAI dal 1961 al 1974.

Era il dopoguerra, erano gli anni della TV pedagogizzante, quelli in cui nel palinsesto trovano spazio trasmissioni come La Posta di Padre Mariano, In Famiglia e Chi è Gesù? Riconosciuto il potere rivoluzionario della televisione, capace ben più della stampa di incidere nella società, la Chiesa decideva dunque di utilizzarla cercando di imprimerle un’impronta cristiana.

Nel processo di evoluzione del rapporto Chiesa-media, due fattori sono stati determinanti nel segnare l’acquisizione della consapevolezza dell’importanza dei media per la società e, quindi, per la Chiesa: il Concilio Ecumenico Vaticano II e Giovanni Paolo II.

Dal 1962 al 1965 si svolse il Concilio Ecumenico Vaticano II, un evento di fondamentale importanza e di grande cambiamento nella storia della Chiesa (e non solo). Giacomo Martina sostiene che la televisione sia stata uno dei fattori, insieme alla diffusione in Europa di valori e culture nuove e alla forte industrializzazione, che hanno indotto Giovanni XXIII a convocare il Concilio. Tale ipotesi sembrerebbe trovare fondamento nel fatto che i precedenti concili della storia della Chiesa erano stati indetti per far fronte alla necessità di ribadire il primato della Chiesa di Roma e di confermare la sua dottrina contro atteggiamenti e situazioni sociali che si ponevano al limite dell’ortodossia. All’epoca del Concilio Vaticano II non erano emerse particolari posizioni eterodosse che esigessero da parte della Chiesa una presa di posizione netta; era, invece, forte la necessità di dare una risposta ai profondi cambiamenti che stavano trasformando la società.

Uno dei primi documenti promulgati dal Concilio nel 1963, fu il decreto Inter Mirifica dedicato ai mezzi di comunicazione sociale (Conc. Vat. II, 1963a). Per la prima volta nella storia della Chiesa un concilio ecumenico affrontava una discussione sugli strumenti di comunicazione sociale. A partire da questo decreto, i documenti del magistero definiscono i media «strumenti della comunicazione sociale», rigettando l’espressione “di massa”. Inter Mirifica istituisce una Giornata mondiale delle comunicazioni sociali da svolgersi ogni anno, l’unica introdotta dal Concilio, e propone la creazione presso la Santa Sede di un ufficio mondiale per gli strumenti della comunicazione sociale e di uffici nazionali per la stampa, il cinema, la radio e la televisione, con l’obiettivo principale di uniformare l’impegno nella comunicazione delle diverse espressioni del mondo cattolico. Il decreto, infine, sottolinea l’importanza della formazione del personale ecclesiastico nella comunicazione mediatica, auspicando parallelamente il coinvolgimento di professionisti laici per essere all’altezza di affrontare adeguatamente le sfide poste dai media alla Chiesa (Eilers, Giannatelli, 1996).

Sull’importanza dell’Inter Mirifica e sul ruolo che il documento ha avuto nel processo di evoluzione del rapporto Chiesa-media i giudizi non sono tuttavia stati unanimi. Secondo Ruszkowski, il decreto conciliare ha solennemente integrato le comunicazioni sociali fra le maggiori preoccupazioni della Chiesa: il valore che ricopre un documento conciliare, infatti, va ben oltre la dichiarazione di un papa tramite una lettera (Ruszkowski, 1987). Da non sottovalutare neppure il fatto che Inter Mirifica sia stato il secondo documento approvato dal Concilio subito dopo la Sacrosanctum Concilium, la costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia, tema evidentemente centrale nelle preoccupazioni della Chiesa (Conc. Vat. II, 1963b). Panteghini rileva, però, che, pur nella sua importanza, l’Inter Mirifica abbia avuto il limite di essere nato prematuramente. Pur prendendo atto dell’influsso profondo che i mass media esercitavano nella società, il decreto tradiva una consapevolezza non ancora sufficientemente matura della specifica funzione dei diversi mezzi nel processo comunicativo e nella «mediazione» del messaggio evangelico (Panteghini, 1993). Secondo Robert White, l’Inter Mirifica, sebbene metta il problema delle comunicazioni di massa «nell’agenda delle cose che devono essere sviluppate dalla Chiesa» (White, 1987, p. 1550), non è condizione sufficiente per affermare che il nuovo modello delle comunicazioni di massa stesse diventando «parte integrante della cultura del cattolicesimo con-temporaneo» (ivi, p. 1551). D’accordo con White è Dario Edoardo Viganò, attuale direttore del Centro Televisivo Vaticano, secondo il quale «sarebbe decisamente fuori misura affermare che il decreto Inter Mirifica abbia avviato una nuova era nei rapporti tra la Chiesa e il mondo dei media. E’ piuttosto interessante rileggere l’esperienza stessa dei Padri conciliari come cammino di maturazione nella consapevolezza di quanto rappresentino, dal punto di vista sociale, i media di massa» (Viganò, 2013, p. 136).

Per capire il ruolo del Concilio nel determinare il cambiamento di at-teggiamento nel rapporto con i media non è sufficiente fermarsi al decreto Inter Mirifica. Il tema della comunicazione ha accompagnato l’intero Concilio Ecumenico Vaticano II, che ha rappresentato uno spartiacque fra due modi differenti di pensare la comunicazione così come, più in generale, ha segnato un passaggio fondamentale di apertura della Chiesa al mondo contemporaneo. All’epoca, stava nascendo un nuovo modello di comunicazione della Chiesa, anche se questo avveniva sotto l’influsso di altri documenti che non trattavano direttamente dei media. Fra gli altri , il più significativo è senza dubbio la costituzione pastorale Gaudium et Spes (Conc. Vat.II, 1965c), uno dei documenti centrali e forse fra i più citati dell’intero Concilio. Tra i tanti argomenti trattati, il testo pone l’accento sull’importanza dei mass media nella formazione delle coscienze degli individui, sul loro ruolo nella società e sulla «necessità» di trasmettere il messaggio evangelico secondo le modalità e i linguaggi propri di ciascuna epoca e cultura.

Secondo Robert White, attraverso la Gaudium et Spes la Chiesa riconosce che i mass media sono uno spazio autonomo in una società pluralistica, all’interno del quale la Chiesa avverte il «dovere» di far sentire il proprio peso culturale (White, 1987). Grazie a questo documento, continua White, hanno iniziato a svilupparsi un nuovo metodo e un nuovo linguaggio teologico più in sintonia con la cultura contemporanea per cui la poesia, l’arte, i romanzi, il teatro e le arti popolari dei film e della televisione diventavano una «fonte importante per la creatività religiosa e sorgente di ispirazione per la fede» (ivi, p. 1568).

Dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II, il numero dei documenti ecclesiali sui mezzi di comunicazione di massa è notevolmente cresciuto. Un documento centrale è stato senza dubbio l’istruzione pastorale Communio et Progressio (PCCS, 1971) pubblicata da Paolo VI. Il documento, espressamente richiesto dall’Inter Mirifica allo scopo di dare applicazione alle indicazioni in esso contenute, detta le linee direttive della strategia della Chiesa nel campo delle comunicazioni sociali e affronta diversi temi: questioni dottrinali tese a ribadire la propensione della Chiesa alla comunicazione; il riconoscimento del contributo delle comunicazioni sociali al progresso umano; la necessità di formazione per i «recettori» e i «comunicatori»; opportunità d’uso e obblighi per entrambi; la cooperazione fra cittadini e autorità civili; la collaborazione nel campo dei media fra «i credenti e gli uomini di buona volontà»; l’importanza dell’opinione pubblica; l’impegno dei cattolici nei media e in particolare nei singoli strumenti (stampa, cinema, radio, televisione, teatro); l’utilità dei media per la Chiesa.

In sintesi, la Pontificia Commissione per le comunicazioni sociali, che firma il documento, focalizza l’attenzione sulle ragioni dell’utilità dei media per la Chiesa: «1- aiutano la Chiesa a presentarsi al mondo moderno; 2- facilitano il dialogo al suo interno; 3- la rendono edotta della mentalità concreta degli uomini contemporanei, ai quali l’arte terza, essa, per divino mandato, deve presentare l’annuncio di Salvezza. Per compiere questa missione la Chiesa deve usare un linguaggio oggi comprensibile a partire dai gravi problemi che angustiano l’umanità» {ibid.). L’istruzione pastorale è un testo fondamentale per comprendere il punto di vista della Chiesa verso i media. Non a caso sarà uno dei documenti più citati fra quelli che riguardano nello specifico internet.

Le dichiarazioni contenute in Communio et Progressio testimoniano, tuttavia, ancora un approccio strumentale finalizzato all’evangelizzazione, analogamente a quanto accadrà qualche anno più tardi con l’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi di Paolo VI (1975), in cui si legge: «la Chiesa si sentirebbe colpevole di fronte al suo Signore se non adoperasse questi potenti mezzi, che l’intelligenza umana rende ogni giorno più perfezionati; servendosi di essi la Chiesa “predica sui tetti” il messaggio di cui è depositaria; in loro essa trova una versione moderna ed efficace del pulpito. Grazie a essi riesce a parlare alle moltitudini».
Dopo il Concilio, nella storia del rapporto tra la Chiesa e i media una tappa fondamentale è stata indubbiamente segnata dal pontificato di Giovanni Paolo II (Guizzardi, 1986; Mazza, 2006). Wojtyla utilizza i media per arrivare al cuore dell’opinione pubblica, appellandosi direttamente a essa e bypassando in numerose occasioni i poteri istituzionali, come ha fatto, per citare solo alcuni esempi, in occasione delle grandi conferenze internazionali promosse dall’ONU al Cairo, a Copenaghen e a Pechino, fra il 1994 e il 1995, per affrontare temi, come l’aborto, su cui la diplomazia tradizionale lo avrebbe lasciato isolato (Benedettini, 2006) . Il rapporto con i media cambia a tal punto che spesso è il papa a dettarne l’agenda, imponendo all’attenzione dell’opinione pubblica i temi che più gli stanno a cuore e riuscendo a far parlare della Chiesa e dei temi a essa cari con una continuità impressionante (Mazza, 1006). K pur vero che il suo è stato un pontificato molto lungo, durante il quale ha avuto il tempo e la capacità di instaurare un rapporto di scambio con i media, attraverso il quale questi ultimi ottenevano un ritorno in termini di audience.

In sostanza, il papa e le iniziative che ruotavano intorno alla sua figura, dai viaggi papali, veri e propri media events, alla partecipazione a concerti pop-rock come quello di Bob Dylan a Bologna nel 1997 (seppure organizzato in occasione di un congresso eucaristico), dalle giornate mondiali della gioventù alla visibilità di un pontefice che, per la prima volta nella storia, mette in pubblico la propria sofferenza, sono carichi di un valore-notizia in grado di catalizzare l’attenzione dei media. Con Giovanni Paolo II la comunicazione religiosa entra dunque di diritto nell’agenda dei media e assume la forma di una comunicazione organizzata massmediaticamente che ha ripercussioni non solo sull’immagine papale, ma su quella dell’intera Chiesa cattolica.

Tutto ciò non significa che le preoccupazioni e i timori espressi dalla Chiesa nei confronti della televisione all’epoca del suo sorgere siano scomparsi. Anche durante il pontificato polacco non sono mancati i timori per gli aspetti negativi generati da una televisione che non viene mai accettata acriticamente o ingenuamente. Diciamo che questo pontificato si pone a cavallo fra l’accettazione con riserva dei media e la piena accettazione avvenuta con la diffusione dei media digitali.

Dal punto di vista dei documenti, il pontificato wojtyliano è stato un periodo molto prolifico, come testimoniano anche importanti riferimenti ai media contenuti in numerosi documenti non espressamente dedicati a essi . Significativo è il fatto che molti di questi testi hanno visto coinvolte, di volta in volta, altre congregazioni vaticane oltre al Pontificio Consiglio per le comunicazioni sociali che ha il compito di vigilare e fornire indicazioni sulla comunicazione cattolica, come ad esempio la Congregazione per la Dottrina della Fede . Tutto ciò è una conferma del fatto che, oltre alle predisposizioni pastorali di Wojtyla, i mezzi di comunicazione (sociale) stavano entrando sempre più a far parte dell’agenda dei temi importanti per la Chiesa (Arasa, 2008).

Fra gli altri, vale la pena ricordare in particolare la lettera enciclica Redemptoris Missio (Giovanni Paolo II, 1990a) dedicata alla permanente validità del mandato missionario. A partire da questo documento inizia a delinearsi un passaggio importante da un approccio strumentale ai media a uno di tipo culturale. Si legge, infatti, nel documento:

Il primo areopago del tempo moderno è il mondo della comunicazione, che sta unificando l’umanità intera rendendola – come si suol dire – “un villaggio globale”. I mezzi di comunicazione sociale hanno raggiunto una tale impor-tanza da essere per molti il principale strumento informativo e formativo, di guida e di ispirazione per i comportamenti individuali, familiari, sociali. Le nuove generazioni soprattutto crescono in modo condizionato da essi. Forse è stato trascurato un po’ questo areopago: si privilegiano generalmente altri strumenti per l’annunzio evangelico e per la formazione, mentre i mass media sono lasciati all’iniziativa di singoli o di piccoli gruppi ed entrano nella pro-grammazione pastorale in linea secondaria. L’impegno nei mass media, tutta-via, non ha solo lo scopo di moltiplicare l’annunzio: si tratta di un fatto più profondo, perché l’evangelizzazione stessa della cultura moderna dipende in gran parte dal loro influsso. Non basta, quindi, usarli per diffondere il messag-gio cristiano e magistero della chiesa, ma occorre integrare il messaggio stesso in questa «nuova cultura» creata dalla comunicazione moderna. E’ un problema complesso, poiché questa cultura nasce, prima ancora che dai contenuti, dal fatto stesso che esistono nuovi modi di comunicare con nuovi linguaggi, nuove tecniche e nuovi atteggiamenti psicologici (Giovanni Paolo II, 1990a).

Un punto di vista ribadito due anni più tardi con Aetatis Novae, l’istruzione pastorale sulla comunicazione sociale nel XX anniversario di Communio et Progressio (di cui si propone di essere un aggiornamento) (PCCS, 1991). Il documento afferma che «i media hanno la capacità di pesare non solo sulle modalità, ma anche sui contenuti del pensiero. Per molte persone, la realtà corrisponde a ciò che i media definiscono come tale; ciò che i media non ri-conoscono esplicitamente appare insignificante. Il silenzio può anche essere imposto de facto a individui o a gruppi che i media ignorano». La Chiesa sa, come dirà di lì a poco Luhmann (1996, p. 15), che «ciò che sappiamo della nostra società, e in generale del mondo in cui viviamo, lo sappiamo dai mass media» e sa che il compito dell’evangelizzazione non può prescindere dal confronto con i media. La Chiesa sa che se vuole raggiungere gli uomini del suo tempo deve farlo utilizzando un linguaggio e un sistema di significato ad essi comprensibili, per cui «l’utilizzazione dei media è diventata essenziale all’evangelizzazione e alla catechesi».

La piena accettazione dei media da parte della Chiesa è siglata de-finitivamente nella lettera apostolica rivolta ai responsabili delle comu-nicazioni sociali, Il rapido sviluppo, pubblicata qualche mese prima della morte di Giovanni Paolo II (2005). Considerata il testamento spirituale di papa Wojtyla, la lettera riassume il pensiero e l’atteggiamento del pontefice nei confronti dei media. L’idea centrale è che il «rapido sviluppo» delle tecnologie sia un segno distintivo della società contemporanea di assoluta importanza per la Chiesa, al punto di affermare che: «l’uso delle tecniche e delle tecnologie della comunicazione contemporanea fa parte integrante della propria missione nel terzo millennio». Siamo di fronte a una matura consapevolezza del ruolo dei media nella società, visti come crocevia delle grandi questioni sociali, e alla conferma che essi sono fondamentali per la missione della Chiesa.

A livello nazionale, il cambiamento di atteggiamento in positivo nei confronti dei media viene fatto proprio ufficialmente dalla Chiesa italiana a partire dal convegno ecclesiale di Palermo del 1995, nel quale l’allora cardinale presidente della CEI, monsignor Camillo Ruini, lanciò l’idea del Progetto culturale orientato in senso cristiano. Il documento che ne contiene le linee programmatiche e che sottolinea il nuovo impegno dei cattolici nella vita del paese individua le aree tematiche nelle quali la Chiesa si sente chiamata a intervenire: dalla persona alla famiglia, alla società al fine di fornire un «apporto qualificato dei cattolici alla vita del Paese» (CEI, 1997, p. 4). Non è un caso che dallo stesso convegno di Palermo le comunicazioni sociali abbiano assunto una rilevanza crescente per la Chiesa. Ai media viene riconosciuta la capacità di realizzare le finalità del Progetto culturale, dal momento che essi fungono da intermediari fra la politica, l’economia, la cultura, l’opinione pubblica. Attraverso di essi vengono selezionati i temi del dibattito pubblico.

Il definitivo riconoscimento del ruolo strategico dei media viene sancito a livello nazionale dagli orientamenti per il decennio 2000-09, ovvero le linee guida che la Chiesa italiana si dà ogni dieci anni per favorire l’unità delle diverse comunità. Il tema era, infatti, in questo caso, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia.

Nel 2004 è poi la volta di un importante documento intitolato Comunicazione e missione. Direttorio sulle comunicazioni sociali, pubblicato dalla Conferenza episcopale italiana . In maniera sistematica, il Direttorio affronta tematiche fino ad allora trattate singolarmente a livello nazionale. I convegni e le pubblicazioni precedenti si erano, infatti, occupati sporadicamente di temi come: la sala della comunità (UCS, 2000a), la figura degli operatori per la cultura e la comunicazione (CEI, 1999), il teatro amatoriale (UCS, 2000b), le nuove tecnologie (CEI, 2000), il ruolo dell’ufficio stampa (UCS, 2002), il rapporto fra comunicazione e cultura (UCS, 2001; CEI, 2003) e fra parrocchia e comunicazione (UCS, 2004a), i media in famiglia (UCS, 2004b). A un certo punto, però, si era resa necessaria una sistemazione organica delle indicazioni inerenti i media, diventati uno strumento nevralgico della presenza della Chiesa nella società e della sua capacità di incidere nella cultura, come già abbiamo avuto modo di vedere nei pronunciamenti di origine vaticana. La CEI parla dell’impegno nelle comunicazioni sociali nei termini di «esigenza diffusa» e «urgenza pastorale»: le diverse articolazioni del mondo ecclesiale devono, dice il documento, realizzare progetti di comunicazione organici e integrati.
La seconda parte del documento propone percorsi e iniziative pastorali con possibili soluzioni operative per agevolare la ricezione nelle realtà locali: l’obiettivo è facilitare risposte concrete agli incoraggiamenti provenienti dalle dichiarazioni ufficiali sul tema della comunicazione e, più specificamente, «aiutare le comunità ecclesiali a prendere coscienza del ruolo dei media nella nostra società; far maturare una competenza relativa alla conoscenza, al giudizio, all’utilizzazione dei media per la missione della Chiesa; sviluppare alcune idee circa i punti nevralgici della pastorale delle comunicazioni sociali (comprensione dei media come cultura e non solo come mezzi, ecc.); offrire una piattaforma comune per i piani pastorali che ciascuna diocesi è chiamata a realizzare» (CEI, 1004, p. 5, corsivo mio) e «proporre alla comunità ecclesiale italiana un quadro strutturato dei contenuti e delle prospettive da cui partire per realizzare una pastorale che consideri le comunicazioni sociali non come un suo settore, ma come una dimensione essenziale» (ivi, Presentazione).

Consapevolezza e utilizzo

Veniamo a internet e alle tecnologie digitali. La gerarchia ecclesiastica ha accolto fin da subito la sfida del web aprendo siti internet in anni in cui la rete, soprattutto in Italia, rappresentava una realtà che cominciava appena a muovere i primi passi: nel 1995 nasce il sito del Vaticano, nel 1996 quello della Conferenza episcopale italiana e fìn dal 1990 quest’ultima istituisce un Servizio informatico nazionale . Negli stessi anni, iniziano a nascere spontaneamente siti web cattolici, soprattutto legati ad associazioni, a movimenti, a ordini religiosi e a parrocchie. Nel 2001 Giovanni Paolo II invia l’esortazione apostolica Ecclesia in Oceania ai fedeli delle diocesi del lontano continente tramite email (celebre è l’immagine che lo ritrae davanti al computer nell’atto di premere il tasto invio).

L’attenzione precoce che la Chiesa ha rivolto ai media digitali è testimoniata anche dai documenti. E il 1990 quando Giovanni Paolo II, in occasione della XXIV Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, nel messaggio II messaggio cristiano nell’attuale cultura informatica, sottolinea l’urgenza per la Chiesa di far proprie le opportunità offerte dai computer e dalle tecnologie di comunicazione per svolgere la propria missione: «nella nuova cultura del computer la Chiesa può più rapidamente informare il mondo del suo “credo” e spiegare le ragioni della sua posizione su ogni problema od evento. Può ascoltare più chiaramente la voce dell’opinione pubblica, entrare in un continuo dibattito con il mondo circostante, impegnandosi così più tempestivamente nella ricerca comune ili soluzioni ai molti pressanti problemi dell’umanità» (Giovanni Paolo II, 1990b). Coerentemente con l’approccio evangelizzatore che ha caratterizzato da sempre il rapporto Chiesa-media, il nuovo medium è ritenuto uno strumento utile per l’annuncio evangelico, così come confermeranno i documenti del 2002: La Chiesa e internet (PCCS, 2002a) ed Etica in internet (PCCS, 2002b), curati dal Pontificio Consiglio per le comunicazioni sociali, e il messaggio di Giovanni Paolo 11 per la XXXVI Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, Internet: un nuovo forum, per proclamare il Vangelo. Si legge, ad esempio, nel messaggio del papa: «per la Chiesa il nuovo mondo del ciberspazio esorta alla grande avventura di utilizzare il suo potenziale per annunciare il messaggio evangelico» (Giovanni Paolo 11, 2002, corsivo mio).

La Chiesa e internet ed Etica in internet contengono linee guida su come internet dovrebbe essere utilizzato dai ministri della Chiesa (sacerdoti ma anche educatori, catechisti, genitori). La Chiesa riconosce che alcune caratteristiche di internet sono particolarmente adatte al perseguimento dei suoi obiettivi: la rete è uno strumento di comunicazione che consente alla Chiesa di parlare ai suoi fedeli. Da questo punto di vista nulla di nuovo rispetto agli altri media. La novità è che attraverso internet la Chiesa può anche essere interrogata. L’utente in rete non ha solo un ruolo passivo e la comunicazione non è più solo top down ma anche botton up. Il documento parla esplicitamente dell’interattività bidirezionale, caratteristica peculiare di internet, considerata tanto importante per la Chiesa perché permette ai fedeli di «manifestare ai loro Pastori “le loro necessità e i loro desideri”» (PCCS, 2002a).

Internet, però, solleva alcune questioni problematiche. Innanzitutto, il limite tracciato e la supposta virtualità dell’esperienza online. L’online, in linea con quanto illustrato nel primo capitolo, era all’inizio ancora considerato dalla Chiesa un mondo parallelo a quello offline. Nello specifico, un grande limite dell’online è l’ impossibilità della somministrazione dei sacramenti che deve avvenire necessariamente in presenza: «la realtà virtuale non può sostituire la reale presenza di Cristo nell’Eucaristia, la realtà sacramentale degli altri Sacramenti e il culto partecipato in seno a una comunità umana in carne e ossa. Su internet non ci sono Sacramenti» {ibid.). La rete è, dunque, ritenuta utile per l’annuncio del messaggio evangelico ma si sottolinea la necessità di riflettere su «come condurre le persone dal ciberspazio alla comunità autentica» {ibid.). Il rapporto fra on line e offline costituirà una costante nei documenti ecclesiali dedicati a Internet e alle reti digitali. In secondo luogo, nei due documenti viene affrontato il tema delle ripercussioni che la diffusione di internet potrebbe avere sul monopolio cattolico di offerta religiosa. Il Pontificio Consiglio si interroga sulle conseguenze di una visibilità della diversificazione interna del cattolicesimo data dalla presenza in rete tanto della voce ufficiale dei vertici della Chiesa quanto di quella di associazioni, movimenti, parrocchie e singoli, frutto di iniziative spontanee e poco controllabili dal centro. Le preoccupazioni riguardano inoltre la presenza di «siti denigratori, volti a diffamare e ad attaccare i gruppi religiosi ed etnici» {ibid.); e ancora il problema della proliferazione di siti che «recano l’etichetta “cattolico”» {ibid.) e contemporaneamente propongono interpretazioni dottrinali distanti da quelle ufficiali. Infine, si parla di un possibile pericolo di «supermercato religioso», e cioè del processo di pluralizzazione dell’offerta religiosa, grazie al quale le persone possono confezionare risposte alle loro domande di tipo religioso fatte su misura per ciascuno senza l’avallo dell’istituzione.

Durante il pontificato di Benedetto XVI, emerge un approccio maturo, professionale e consapevole ai mezzi di comunicazione, come si evince dai messaggi pubblicati in occasione delle giornate mondiali delle comunicazioni sociali, in particolare gli ultimi cinque del suo pontificato, e dai discorsi pronunciati in alcuni incontri con gli operatori dei media. Il linguaggio utilizzato testimonia una grande aderenza all’attualità una conoscenza profonda dei diversi ambienti sociali online. Nei messaggi del 2009 e del 2011 è chiaro ad esempio il riferimento a Facebook quando Benedetto XVI parla di amicizia, così come nel 2012 il riferimento a Twitter quando parla della possibilità di esprimere pensieri profondi «nella essenzialità di brevi messaggi, spesso non più lunghi di un versetto biblico». Dai documenti traspare una grande consapevolezza di essere di fronte a una vera e propria rivoluzione, e non solamente una trasformazione di tipo tecnologico e, quindi, strumentale. Internet introduce novità significative rispetto agli altri media. Si legge, infatti, nel messaggio del 2011:

È sempre più comune la convinzione che, come la rivoluzione industriale pro-dusse un profondo cambiamento nella società attraverso le novità introdotte nel ciclo produttivo e nella vita dei lavoratori, così oggi la profonda trasformazione in atto nel campo delle comunicazioni guida il flusso di grandi mutamenti culturali e sociali.

Le nuove tecnologie non stanno cambiando solo il modo di comunicare, ma la comunicazione in se stessa, per cui si può affermare che si è di fronte a una vasta trasformazione culturale. Con tale modo di diffondere informazioni e conoscenze, sta nascendo un nuovo modo di apprendere e di pensare, con inedite opportunità di stabilire relazioni e di costruire comunione (Benedetto XVI, 2001, corsivo mio).

Rimanendo nel solco dell’accettazione di internet già segnato dal suo pre-decessore, Benedetto XVI riconosce che «l’ambiente digitale non è un mondo parallelo o puramente virtuale, ma è parte della realtà quotidiana di molte persone, specialmente dei più giovani» (2013). E «una nuova “agorà”, una piazza pubblica e aperta in cui le persone condividono idee, informazioni, opinioni, e dove, inoltre, possono prendere vita nuove relazioni e fare comunità» (ibid.).

I media digitali segnano un punto di svolta importante nel rapporto Chiesa-media, in particolare con la diffusione del web 2.0. La possibilità di costruire e consolidare relazioni tramite i social network e la penetrazione di internet nella vita quotidiana hanno aperto nuove possibilità per lo svolgimento della mission della Chiesa. Il papa invita a non inserire solo contenuti dichiaratamente religiosi perché, come afferma nel 2011 e riprende poi nel 2013, si possono comunicare «scelte, preferenze, giudizi che siano profondamente coerenti con il Vangelo, anche quando di esso non si parla in forma esplicita». L’obiettivo della Chiesa in rapporto ai media nell’era delle reti digitali non è solo l’evangelizzazione ma la testimonianza cristiana. Non è un caso che il papa in più occasioni abbia invitato all’autenticità nell’accostarsi ai social. Nel messaggio del 2011 dal titolo Verità, annuncio e autenticità di vita nell’era digitale invita i cristiani a essere presenti in ma-niera autentica perché «in questi spazi non si condividono solamente idee e informazioni, ma in ultima istanza si comunica se stessi».

Da un punto di vista del “cosa fa” la Chiesa con i media digitali rispetto al “cosa dice”, l’esempio recente più noto che testimonia di un’apertura ormai totale è senza dubbio quello dell’account Twitter del papa @pontifex in nove lingue che conta ormai oltre quindici milioni di follower.
Non si tratta ovviamente del primo comportamento di apertura in tal senso. Durante il pontificato di Benedetto XVI, ad esempio, è stato aperto nel 2009 il canale di video del Vaticano su YouTube (www.youtube. com/vaticanit), frutto di un accordo fra la Santa Sede e Google-YouTube in collaborazione con il Centro Televisivo Vaticano e Radio Vaticana, il sito www.popeiyou.net che permette di scaricare su iPhone e iPad discorsi, messaggi e video del papa e, ancora, l’applicazione The Pope App.

Lo stile semplice e diretto che caratterizza papa Francesco trova un alleato importante nelle reti digitali. Non stupisce che il papa abbia continuato a utilizzare l’account Twitter aperto da Benedetto XVI. Le occasioni in cui papa Francesco ha trattato il tema della comunicazione confermano la profonda maturazione della consapevolezza della Chiesa sulle questioni che riguardano oggi la comunicazione (Spadaro, 2014). Il mondo dei media è considerato un “ambiente di vita” e non solo uno strumento che permette di “costruire ponti” con la contemporaneità. Essere in rete ora significa condividere il messaggio e non solo trasmetterlo. Nei testi del papa l’accento è spesso posto sulla possibilità che la rete offre di creare relazioni e non più sull’utilità dello strumento per la trasmissione del messaggio evangelico. Come ha affermato monsignor Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio consiglio per le comunicazioni sociali, «stiamo imparando a superare il modello del pulpito e dell’assemblea che ascolta per il rispetto della nostra posizione. Siamo obbligati a esprimere noi stessi in modo da coinvolgere e convincere gli altri, che a loro volta condividono le nostre idee con i loro aulici, “followers e partner di dialogo» (ivi, p. 251). È evidente il mutamento di prospettiva rispetto a un modello gerarchico ecclesiastico organizzato in maniera verticale in cui il prete predica e l’assemblea seduta in chiesa ascolta in maniera passiva.

Papa Francesco riprende anche il tema dell’autenticità: «la testimonianza cristiana non si fa con il bombardamento di messaggi religiosi», dice Francesco, ma «occorre sapersi inserire nel dialogo con gli uomini e le donne di oggi, per comprenderne le attese, i dubbi, le speranze» (Francesco 2014). La rete è, quindi, considerata un ambiente importante attraverso il quale relazionarsi con gli uomini contemporanei. Se oggi gli uomini vivono anche nell’ambiente digitale, la Chiesa, in accordo con il dettato evangelico che la vuole là dove gli uomini sono, non può far mancare la sua presenza in questo ambito . Non a caso il papa parla spesso di nuove forme di prossimità create dalle tecnologie digitali che abbattono le barriere dello spazio e del tempo e di maggiori possibilità di incontro e di solidarietà.

Non solo evangelizzazione
L’ipotesi della lenta ma inesorabile evoluzione in positivo del rapporto Chiesa-media, inizialmente formulata, è dunque confermata. Messe da parte chiusure e cautele del passato, quella che oggi si relaziona con i media è una Chiesa attenta alla comunicazione digitale che, anzi, è considerata un ambito centrale attraverso cui continuare a svolgere la missione evangelica. Si è trattato di un processo che non ha subito mutamenti radicali e traumatici nel corso degli anni e dei secoli: progressivamente le posizioni di chiusura sono sfumate, divenendo meno categoriche, fino alla completa accettazione dei media.

La “naturale” predisposizione della Chiesa all’uso delle forme comunicative per compiere la missione dell’annuncio della parola di Dio le ha permesso di non trovarsi impreparata di fronte alle innovazioni intervenute nel corso del tempo. In un certo senso, quindi, non deve stupire più di tanto il fatto che la Chiesa sia all’avanguardia nell’utilizzo dei media e in particolare, oggi, di internet e dei media digitali: la sua lunga tradizione di comunicazione e alcune sue consuetudini la pongono in una situazione di vantaggio rispetto ad altri soggetti e istituzioni. Allo stesso tempo, però, il connubio Chiesa-comunicazione non è stato sufficiente a far sì che il processo di accettazione dei media fosse indolore. Nonostante le intuizioni relative al potere e al ruolo dei media nella società e il riconoscimento della loro utilità per la comunicazione del Vangelo, la Chiesa ha adottato atteggiamenti di chiusura e di cautela che possono essere addebitati a una più generale difficoltà di adattamento ai processi di modernizzazione della società e alla messa in discussione di modelli di conservazione dell’autorità consolidati nel corso del tempo. Non dimentichiamo che si tratta di una delle nostre più antiche istituzioni.

Il rapporto della Chiesa con internet deve essere, quindi, letto come l’ultimo atto di un rapporto controverso e, allo stesso tempo, positivo con i media. Progressivamente, ma soprattutto a partire dal processo di commercializzazione degli anni Ottanta, i media sono divenuti i principali agenti di socializzazione nei campi più diversi della società affiancando o addirittura sostituendo entità e organismi che in precedenza assolvevano questa funzione. Al di là dei circuiti più o meno ristretti che fanno capo ai diversi sistemi sociali (politico, economico, religioso), i mezzi di comunicazione di massa sono diventati l’attore sociale da cui un’istituzione non può prescindere se intende raggiungere fette di pubblico che non appartengono o non si muovono all’interno del suo stesso mondo. Le ragioni vanno rintracciate in quel processo di mutamento descritto dalla teoria della differenziazione sociale secondo cui la complessità sociale tende ad accentuarsi, le funzioni si specializzano sempre di più e un sistema specifico, quello della comunicazione di massa, assolve quelle funzioni di comunicazione tra e dentro i diversi sistemi sociali che prima erano svolte autonomamente dalle varie articolazioni della società. In altre parole, funzioni prima confuse (politica, religione, economia) si separano e i media svolgono il ruolo di intermediario fra i diversi sottosistemi sociali.

La Chiesa continua a contare su un sistema organizzato e su un insieme di risorse umane che costituiscono un unicum rispetto ad altre istituzioni. Tuttavia, non è più il tempo in cui essa veniva ascoltata come istituzione e punto di riferimento assoluto o, almeno, non svolge più la sua funzione in riferimento alla totalità della popolazione. La Chiesa sa che «le tradizionali agenzie educative sono state in gran parte soppiantate dal flusso mediatico» (CEI, 2010) e che «nel mercato delle opinioni oggi la proposta della Chiesa è una tra le tante; la sua voce è una tra le molte» (CEI, 2007). Riconosce, quindi, che se vuole raggiungere fette di pubblico che non appartengono al suo stesso mondo, e in molti casi anche per parlare ai “suoi”, non può prescindere dai media. Pur potendo contare su numerose testate e pubblicazioni cattoliche , deve passare anche sui media laici perché rinunciarvi significherebbe perdere rilevanza, mentre essere presenti garantisce maggiore visibilità e riconoscimento sociale. Per comprendere le ragioni dell’accettazione di internet, bisogna tener presenti però anche altri due fattori: le specificità di internet e dei media digitali e le trasformazioni delle forme del credere religioso. La diffusione dell’online incide direttamente sulle relazioni interpersonali, tanto care alla Chiesa cattolica. Come ha sottolineato Benedetto XVI, « sebbene sia motivo di meraviglia la velocità con cui le nuove tecnologie si sono evolute in termini di affidabilità e di efficienza, la loro popolarità tra gli utenti non dovrebbe sorprenderci, poiché esse rispondono al desiderio fondamentale delle persone di entrare in rapporto le une con le altre» (Benedetto XVI, 2009). L’online incide direttamente sulle relazioni interpersonali, tanto care alla Chiesa cattolica. L’evoluzione delle reti telematiche in senso sociale e partecipativo rende possibili nuove forme di interazione e relazione sociale. I media digitali sono in grado di svolgere sia le funzioni tradizionalmente assegnate ai mass media, sia quelle tipiche delle forme di comunicazione interpersonale (Paccagnella, 2004).

I mass media non erano mai riusciti a modificare profondamente i rapporti interni alle comunità religiose. Il rilievo dato al culto liturgico, alla comunità parrocchiale e al sacerdozio, come luoghi e canali attraverso i quali si sviluppa la fede grazie al contatto diretto e interpersonale, hanno determinato in passato una certa ambiguità della Chiesa nei confronti dei mezzi di comunicazione di massa (White, 1987). Secondo Robert White, è stato questo un limite alla piena accettazione della televisione. Quest’ ultima e gli altri media sono stati sempre considerati utili per l’evangelizzazione ma la trasmissione della fede era una funzione già svolta all’interno del tessuto parrocchiale. Non è un caso che la Chiesa cattolica non abbia mai cercato conversioni di massa come, invece, è comune all’interno della tradizione evangelica protestante.

Al contrario, la rete può favorire il contatto diretto, la partecipazione alla comunità parrocchiale, le relazioni sociali all’interno e all’esterno delle comunità religiose, creando e rafforzando i legami comunitari già in essere, e può costituire una forma di preparazione al culto liturgico.

E veniamo all’altro motivo che ritengo abbia influito sul cambiamento di atteggiamento della Chiesa verso i media e internet in particolare. Il contesto religioso in cui opera la Chiesa è radicalmente diverso rispetto a quello in cui dettava indicazioni e orientamenti valoriali per la maggioranza della popolazione. Il tradizionale monopolio religioso italiano è messo in discus-sione. L’offerta religiosa si pluralizza. Ripetendo in lingua italiana, tramite Google (tab. 2.1), ricerche analoghe a quelle condotte da Hojsgaard e Warburg (2005), ho scoperto che se nel 2005 le pagine sulla religione in lingua italiana erano 1.790.000, nel 2014 sono diventate 23.100.000. Allo stesso modo, digitando la chiave di ricerca «Dio» ho scoperto che nel 2005 Google restituiva “solo” 10.400.000 pagine; oggi sono ben 292.000.000. Quando cerco “religione”, Google mi propone una serie di ricerche correlate tra le quali ci sono: religione buddista, religione protestante, religione ortodossa, religione islamica, religione musulmana e così via. La novità giunta con internet non è certo il pluralismo esterno già da tempo presente (Garelli, Guizzardi, Pace, 2003), ma la maggiore visibilità, l’accessibilità delle proposte alternative a quella cattolica.

TABELLA
Confronto fra il numero di pagine web dedicate alla religione fra il 2005 e il 2014 in Italia

Pagine web nel 2005’              Pagine web nel 2014“                   Incremento (v.a.)             incremento relativo (%)
Dio           10.400.000                               292.000.000                                  281.600.000                    2.708
Religione 1.790.000                                 23.100.000                                     21.310.000                     1.191

Le ricerche sono state effettuate tramite www.google.it il 4 aprile 2.005.
! Le ricerche sono state effettuate tramite www.google.it il 15 giugno 2014.

Sul web, inoltre, almeno apparentemente slegato dalle vicende dei singoli contesti nazionali, nuovi competitor stanno entrando in quello che fino a ora è stato considerato un mercato religioso protetto, alimentando i fenomeni del supermercato religioso e della “religione fai da te”. I nuovi culti online vanno a sommarsi ad altri fenomeni concomitanti che contribuiscono alla pluralizzazione e alla complessificazione del mercato religioso: anche in Italia, come in tutta Europa, insieme alle religioni tradizionali (le varie chiese cristiane, oltre alla presenza ebraica), troviamo nuovi attori che compongono un’offerta del religioso sempre più articolata e visibile. La Chiesa deve, inoltre, competere anche con quella che Helland chiamava online religion. Il processo di ingresso e radicamento di nuove religioni è oggi indubbiamente favorito rispetto ad altre epoche, poiché internet rappresenta una piattaforma espressiva che amplia a dismisura le possibilità di diffusione. Allo stesso tempo, la rete contribuisce alla trasformazione e all’adattamento delle religioni al nuovo ambiente digitale. Accade anche che, accanto alle vecchie tradizioni religiose (siano esse chiese, sette o denominazioni), grazie alla rete nascano nuovi culti. Enzo Pace parla, ad esempio, della diffusione in Italia dei siti neopagani o Wicca, ovvero «un fenomeno di esoterismo iniziato nel 1954 e oggi diffuso in tutto il mondo con comunità, gruppi e perfino chiese Wicca» (Pace, 2013, p. 1226).

D’altra parte, cambia la domanda di religione rispetto al passato. I sociologi della religione hanno descritto il fenomeno con la formula: “believe without belonging to a church” (“credere senza appartenere a una Chiesa”). Non si è più cattolici per tradizione e credere diventa sempre più una scelta. La religione è sempre più deistituzionalizzata. Il processo di individualizzazione e di privatizzazione delle credenze va, infatti, di pari passo con il processo di deistituzionalizzazione analogo a quello che stanno vivendo altre istituzioni (Davie, Hervieu-Léger, 1996; Hervieu-Léger, 1996). Le comunità di affetto tradizionali come la famiglia estesa e la comunità locale e le tradizionali agenzie educative si sono notevolmente indebolite rispetto al passato recente. Fino a poco tempo fa, la comunità cristiana corrispondeva alla comunità del luogo in cui la persona viveva: la comunità nel senso inteso da Tonnies. Oggi non è più così. La Chiesa deve cercare di ricreare la comunità cristiana in forme e modalità inedite, poiché non può più contare su una base omogenea e precostituita. Tutto questo ha dirette conseguenze sulla sua opera di evangelizzazione; oggi, la comunicazione pastorale deve anche insegnare a costruire dalla base la comunità (White, 2001), in un contesto in cui cresce sempre più la tendenza individualizzante che conduce a quella che è stata più volte definita una “religione fai da te”.

La Chiesa, conscia di tale trasformazione, parla di nuova evangelizzazione. Nel 2010 il papa ha istituito il Pontificio Consiglio per la promozione della “nuova evangelizzazione” intendendo con essa «il compito di una missione da svolgere presso i credenti che si sono allontanati dalla fede o sono indifferenti». Come affermava Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica Christifideles laici, la nuova evangelizzazione è la capacità di «rifare il tessuto cristiano della società umana. Ma la condizione è che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali che vivono in questi Paesi e in queste Nazioni». Per dirla in altre parole: non occorre più andare dall’altra parte del mondo per compiere la missione dell’annuncio del Vangelo. I destinatari della nuova evangelizzazione sono coloro che vivono in Occidente et si deus non daretur.

Nell’organizzazione ecclesiastica la parrocchia è la prima che do-vrebbe rispondere ai mutamenti delle forme del credere religioso che, seppure in maniera differente da quanto accade in altri paesi, interessano sempre più anche un paese tradizionalmente cattolico come l’Italia. Italiano non significa più necessariamente cattolico. Non si dà più per scontata la propria appartenenza religiosa ma si vuole scegliere ciò in cui credere (Berger, 1005). Sto parlando di quella domanda di una “religione a scelta” che, come evidenziava Hervieu-Léger, privilegia la ricerca personale e la costruzione di una religiosità su misura rispetto alla preoccupazione di essere conformi ai dettami delle istituzioni religiose. Una ricerca in linea con un cambiamento più generale della società che conduce l’uomo a pensarsi come individualità e a costruire da sé la propria identità (Hervieu-Léger, 2003).

Sul web, inoltre, almeno apparentemente slegato dalle vicende dei singoli contesti nazionali, nuovi competitor stanno entrando in quello che fino a ora è stato considerato un mercato religioso protetto, alimentando i fenomeni del supermercato religioso e della “religione fai da te”. I nuovi culti online vanno a sommarsi ad altri fenomeni concomitanti che contribuiscono alla pluralizzazione e alla complessificazione del mercato religioso: anche in Italia, come in tutta Europa, insieme alle religioni tradizionali (le varie chiese cristiane, oltre alla presenza ebraica), troviamo nuovi attori che compongono un’offerta del religioso sempre più articolata e visibile. La Chiesa deve, inoltre, competere anche con quella che Helland chiamava online religion. Il processo di ingresso e radicamento di nuove religioni è oggi indubbiamente favorito rispetto ad altre epoche, poiché internet rappresenta una piattaforma espressiva che amplia a dismisura le possibilità di diffusione. Allo stesso tempo, la rete contribuisce alla trasformazione e all’adattamento delle religioni al nuovo ambiente digitale. Accade anche che, accanto alle vecchie tradizioni religiose (siano esse chiese, sette o denominazioni), grazie alla rete nascano nuovi culti. Enzo Pace parla, ad esempio, della diffusione in Italia dei siti neopagani o Wicca, ovvero «un fenomeno di esoterismo iniziato nel 1954 e oggi diffuso in tutto il mondo con comunità, gruppi e perfino chiese Wicca» (Pace, 2013, p. 1226). D’altra parte, cambia la domanda di religione rispetto al passato. I sociologi della religione hanno descritto il fenomeno con la formula: “believe without belonging to a church” (“credere senza appartenere a una Chiesa”). Non si è più cattolici per tradizione e credere diventa sempre più una scelta. La religione è sempre più de istituzionalizzata. Il processo di individualizzazione e di privatizzazione delle credenze va, infatti, di pari passo con il processo di deistituzionalizzazione analogo a quello che stanno vivendo altre istituzioni (Davie, Hervieu-Léger, 1996; Hervieu-Léger, 1996).

Le comunità di affetto tradizionali come la famiglia estesa e la comunità locale e le tradizionali agenzie educative si sono notevolmente indebolite rispetto al passato recente. Fino a poco tempo fa, la comunità cristiana corrispondeva alla comunità del luogo in cui la persona viveva: la comunità nel senso inteso da Tonnies. Oggi non è più così. La Chiesa deve cercare di ricreare la comunità cristiana in forme e modalità inedite, poiché non può più contare su una base omogenea e precostituita. Tutto questo ha dirette conseguenze sulla sua opera di evangelizzazione; oggi, la comunicazione pastorale deve anche insegnare a costruire dalla base la comunità (White, 2001), in un contesto in cui cresce sempre più la tendenza individualizzante che conduce a quella che è stata più volte definita una “religione fai da te”.

La Chiesa, conscia di tale trasformazione, parla di nuova evangelizzazione. Nel 2010 il papa ha istituito il Pontificio Consiglio per la promozione della “nuova evangelizzazione” intendendo con essa «il compito di una missione da svolgere presso i credenti che si sono allontanati dalla fede o sono indifferenti». Come affermava Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica Christifideles laici, la nuova evangelizzazione è la capacità di «rifare il tessuto cristiano della società umana. Ma la condizione è che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali che vivono in questi Paesi e in queste Nazioni». Per dirla in altre parole: non occorre più andare dall’altra parte del mondo per compiere la missione dell’annuncio del Vangelo. I destinatari della nuova evangelizzazione sono coloro che vivono in Occidente et si deus non daretur.

Nell’organizzazione ecclesiastica la parrocchia è la prima che dovrebbe rispondere ai mutamenti delle forme del credere religioso che, seppure in maniera differente da quanto accade in altri paesi, interessano sempre più anche un paese tradizionalmente cattolico come l’Italia. Italiano non significa più necessariamente cattolico. Non si dà più per scontata la propria appartenenza religiosa ma si vuole scegliere ciò in cui credere (Berger, 1005). Sto parlando di quella domanda di una “religione a scelta” che, come evidenziava Hervieu-Léger, privilegia la ricerca personale e la costruzione di una religiosità su misura rispetto alla preoccupazione di essere conformi ai dettami delle istituzioni religiose. Una ricerca in linea con un cambiamento più generale della società che conduce l’uomo a pensarsi come individualità e a costruire da sé la propria identità (Hervieu-Léger, 2003).

NOTE:
Negli anni Sessanta ci fu un grande sviluppo delle sale parrocchiali presenti sul territorio nazionale che arrivarono a cinquemila unità, poco meno del 50% di tutti i cinema in Italia (Vigano, 1997). L’entusiasmo del Concilio, unito alla stagione d’oro che viveva in quegli anni il cinema italiano, pervadeva direttamente le parrocchie, pur rimanendo fortemente radicata la preoccupazione morale. La Chiesa non poteva più tacersi l’importanza che stava assumendo il cinema, verso il quale non sembrava più adeguato attestarsi su una posizione di chiusura, come lo era stata quella verso la stampa fino ad allora (Eilers, Giannatelli, 1996; Viganò, 2oo2).

2- Giovanni xxiii si interessa ai media anche in tre diverse encicliche non espressamente dedicate al mondo della comunicazione: Ad Petri Cathedram, dedicata alla promozione della carità, dell’unità e della pace (1959a); Mater et Magistra, sugli sviluppi della questione sociale alla luce della dottrina cristiana (1961); Pacem in Terris, sulla pace fra tutte le genti (1963).

3-I documenti conciliari possono essere di tre tipi, in ordine di importanza: costituzioni, dichiarazioni, decreti.

4- Prima della fine del Concilio Vaticano II, rispondendo a tale proposta, Paolo VI istituì la Commissione (oggi: Consiglio) pontifìcia delle comunicazioni sociali, con il motti proprio In
Fructibus Multis (1964).

5-Riferimenti importanti ai mass media sono contenuti anche nei decreti conciliari Apostolicam actuositatem (Conc. Vat. Il, 1965b) e Ad gentes (Conc. Vat. Il, 1965d), rispettivamente dedicati all’apostolato dei laici e all’attività missionaria della Chiesa, mentre il decreto Christus Dominus (Conc. Vat. II, 1965a) sottolinea il ruolo dei vescovi nell’uso dei mass media focalizzando l’attenzione sulle opportunità che questi offrono per scopi pastorali e di evangelizzazione.

6-Prima della conferenza del Cairo, anche molti Stati vicini al mondo cattolico avevano fatto capire chiaramente che non avrebbero potuto sostenere pubblicamente le tesi del Vaticano sull’aborto e sulla cosiddetta «salute riproduttiva della donna» (Benedettini, 1006).

7-Fra gli altri, è bene ricordare le esortazioni apostoliche Catechesi Tradendae (1979), Familiar is Consortio (1981) e Christefidelis Laici (1988), la lettera enciclica Redemptoris Missio (1990), le esortazioni apostoliche post-sinodali Ecclesia in Africa (1995), Vita consecrata (1996) ed Ecclesia in Europa (2003).

8-Fra i documenti che hanno come tema principale i mezzi di comunicazione ci sono: Orientamenti per la formazione dei futuri sacerdoti circa gli strumenti della comunicazione sociale (1986) pubblicato dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica; Pornografia e violenza nei mezzi di comunicazione. Una risposta pastorale (1989a) e Criteri di collaborazione ecumenica e interreligiosa nel campo delle comunicazioni sociali (1989b) pubblicati a cura del Pontifìcio Consiglio per le comunicazioni sociali; Istruzione circa alcuni aspetti dell’uso degli strumenti di comunicazione sociale nella promozione della dottrina dellafede (1991) pubblicato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede.

9- Il Direttorio, come la maggior parte dei documenti delle conferenze episcopali, si pone a metà strada fra le indicazioni dei documenti papali e vaticani e la Chiesa che opera sul territorio con il compito di tradurre più concretamente le strategie illustrate nei pronunciamenti magisteriali.

10- Il SICEI fornisce assistenza informatica alla struttura interna della Conferenza episcopale italiana e a tutte le diocesi italiane (cfr. www.chiesacattolica.it/sicei).

11- Dato aggiornato all’n settembre 2.014. Nello specifico i diversi account contano i seguenti numeri di follower: pontifex_es 6.69M, pontifex 4.46M, pontifex it 1.95M, pontifex pt i.i$M, pontifex fr 300.000, pontifex in 179.000, pontifex pl 163.000, pontifex_de 111.000, pontifex_ ar 151.000.

12-Come elenca padre Antonio Spadaro, le occasioni in cui papa Francesco ha toccato il tema della comunicazione sono state: l’incontro con i rappresentanti dei media il 16 marzo 1013 subito dopo la sua elezione; l’ incontro con gli scrittori della “Civiltà Cattolica” il 14 giugno 1013; la conclusione della plenaria del Pontifìcio Consiglio delle Comunicazioni Sociali il 11 settembre 1013; la conclusione della plenaria del Pontificio Consiglio dei laici il 7 dicembre 1013; l’udienza con i dirigenti e il personale della rai in occasione del 90° anniversario dell’inizio delle trasmissioni radiofoniche e del 60 di quelle televisive; il messaggio per la 481 Giornata mondiale delle comunicazioni sociali dal titolo Comunicazione al servizio di un autentica cultura dell’ incontro (Spadaro, 2014).

13-I media della Santa Sede sono: “L’Osservatore Romano”, il Centro Televisivo Vaticano (CTV), “Radio Vaticana”, “News.va”, il Bollettino della Sala Stampa vaticana (vis). I media che fanno capo alla CEI sono: il quotidiano “Avvenire”, l’agenzia stampa “Sir” “TV2OOO”, “RadioInBLU”.

14-Giovanni Paolo II ha parlato per la prima volta di nuova evangelizzazione il 13 giugno 1979 a Nowa Huta (Polonia). Benedetto XVI ha ribadito questa esigenza con il motu proprio Ubi- cumque et semper.