Amuchina
di Alessandro D’Avenia|02 marzo 2020
da corriere.it
Continui a sfregarti le mani per eliminare ogni atomo di impurità. Cerchi una purezza impossibile sulla Terra, perché la Terra è terra: me lo ha ricordato mercoledì scorso il rito delle ceneri, polvere sono e polvere ritornerò. Allora ti guardi le mani che dai sempre per scontate, tranne quando ti rivelano a che cosa ti aggrappi per non affondare: ma io sono davvero solo polvere? Per gli antichi di puro c’era solo il vino non tagliato con acqua e il divino non tagliato col tempo, e quindi immortale: a noi mortali la vita «in purezza» non è data. Il tempo ci rende «sanamente impuri», in lotta continua contro la morte, e per questo fecondi e creativi nel costruire la vita. Un virus ci ha ricordato questa impurità, sgretolando le facciate di febbrili routine e mostrandoci le fondamenta su cui viviamo, perché è di fronte alla paura della morte che si vede, tra ridicolo e ferocia, chi siamo veramente. Le fondamenta di una società che si dice «progredita» appaiono incerte e siamo costretti a chiederci su cosa abbiamo costruito, in cosa abbiamo avuto fede e, magari, come ricostruire.
Così fece Giovanni Boccaccio con il Decameron, all’inizio del quale narra il disfacimento di Firenze, resa un cimitero dalla peste del 1348. Anche lui vi aveva perso amici e parenti, e nella sua narrazione cercava salvezza per sé e i lettori: «Questo orrido cominciamento vi sarà, non altrimenti che ai camminanti, una montagna aspra e erta, presso alla quale un bellissimo piano e dilettevole sia riposto». I ricercatori della cura contro la peste sono 10 giovani (7 ragazze e 3 ragazzi) che, dopo aver pregato in Santa Maria Novella, decidono di ritirarsi in campagna, ri-creando la vita che la peste ha distrutto, trascorrendo due settimane tra lavoro, meditazione e riposo. Ogni pomeriggio (tranne venerdì e sabato per ragioni liturgiche) si sceglie un tema e ciascuno racconta una storia, e così sono 10 i giorni (da cui il titolo dell’opera) nei quali vengono narrate le 100 famose novelle (Chichibio e la gru, Federigo degli Alberighi, Lisabetta da Messina…). Emergono così le fondamenta che lo scintillante autunno del Medioevo consegnava all’Occidente come antidoto alla morte. Fortuna, Amore e Ingegno sono infatti gli argomenti attorno a cui ruotano i racconti (e la vita), perché Amore e Ingegno sono le due forze umane capaci di contrastare la Fortuna, il caos dell’intera vicenda umana, compresa in modo esemplare tra la malvagità di Ciappelletto nella prima novella e la magnanimità di Griselda nell’ultima. Il Decameron è un distillato della cultura medievale per «ri-creare» la vita (il titolo riprende l’Exameron di Sant’Ambrogio, relativo alla creazione del mondo in sei giorni). Il più importante studioso di Boccaccio, Vittore Branca, dice infatti che le 100 novelle sono la versione «umana» dei 100 canti della commedia «divina» di Dante, a cui Boccaccio era profondamente legato (morì mentre ne esponeva l’opera ai fiorentini in piazza). Non si capisce il Medioevo se non si tengono insieme Decameron e Commedia come poli, umano e divino, della vita: «l’armonia di ansia del trascendente e di ricerca del concreto, di mistici rapimenti e corposa volontà di vivere, di eroismi civili e religiosi e di violenza degli istinti del sesso e della roba, rende così affascinante questa età così complessa e multiforme, madre della nostra cultura e della nostra vita». Mentre Dante narra il versante interiore della guarigione (dal peccato), Boccaccio quello esteriore (dalla peste). Per uno la «purificazione» è la via verticale verso la Vita, per l’altro è l’orizzontale difesa della vita, rappresentata simbolicamente da 10 giovani e 100 racconti, che arginano la morte ricreando le fondamenta della loro civiltà: ordine, razionalità, relazioni, bellezza.
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