La guerra delle parole
L’opportunità di chiamare guerra un conflitto armato deriva solo dalla necessità di renderlo visibile? Valerio Cataldi, reporter Rai e presidente dell’associazione Carta di Roma, ci spiega – partendo dall’invasione dell’Ucraina fino a verità di cui nessuno si è accorto – il potere delle parole nel costruire le catene di solidarietà e le linee di schieramento geopolitico
Chiamarla guerra è già sbagliato. Quella iniziata il 24 febbraio è una invasione. Gli esperti la chiamano guerra asimmetrica, coinvolge due paesi, ma solo in uno dei due si combatte, solo uno dei due subisce attacchi aerei e di terra, solo in uno dei due la popolazione muore sotto le bombe ed è costretta a lasciare la propria casa e le proprie cose. L’Ucraina è stata invasa, chiamarla in modo diverso, chiamarla guerra, significa darle un volto, una forma diversa da quella che ha nella realtà.
Le parole sono importanti, “le parole fanno le cose” dice il linguista John Langshaw Austin che nel 1955 all’università di Harvard teneva una serie di lezioni con un titolo unico, che è an- che un manifesto: how to do things with words, come fare cose con le parole. Austin introduceva per la prima volta la teoria degli atti linguistici con cui sosteneva che le parole possono andare oltre il significato che portano con se e che possono esercitare una vera e propria azione comunicativa capace di incidere sulla realtà.
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