C’è ancora spazio per la moderazione digitale?
Oppure è stata progressivamente cancellata dalla cultura comune a causa del pollice alzato dei like, della share di Facebook e del retweet di Tweet? Quali le conseguenze per il dibattito pubblico e la partecipazione all’interno delle piattaforme? Ce lo spiega Giacomo Buoncompagni
di Giacomo Buoncompagni
È ormai evidente come l’ottimismo tecno-democratico, nato con Internet, sia giunto alla fine. Dalla strage di Christchurch a quella di El Paso, dall’elezione di Donald Trump agli (apparentemente) innocui meme politici, fino ai numerosi episodi di complottismo legati al covid-19. Sempre più spesso la stretta attualità ci pone dinnanzi a degli avvenimenti che influiscono in maniera concreta e diretta sulla nostra realtà, ma che vengono poi discussi a lungo, in modo olistico, violento, confuso, poco costruttivo, senza una chiara visione, ne progettualità o idea circa le conseguenze sociali che determinate parole o azioni possono produrre a livello sociale.
Negli ultimi mesi, in particolare, abbiamo assistito a crescenti critiche mosse contro il comportamento degli utenti in rete e, soprattutto, contro le società-mercato di social media in merito al modo in cui moderano i contenuti che compongono lo spazio digitale.
Aziende virtuali che spesso si trovano ad affrontare dilemmi critici in tema di diritti umani. Combattere in modo troppo aggressivo ciò che è considerato tecnicamente un contenuto dannoso rischia però di mettere in discussione il tema della libertà di espressione. Intervenire con o rimuovere contenuti, può facilmente portare alla censura. Di fronte alla necessità di fare di più per garantire la responsabilità di aziende e utenti, e allo stesso tempo, una possibilità di dialogo continuo e critico in rete, molti governi hanno iniziato a regolamentare i contenuti on-line.