Covid 19 tra comunicazioni di crisi ed etica della responsabilità politica

Come la pandemia continua ad influenzare la vita quotidiana collettiva nella ‘nuova normalità’? Dal trauma culturale all’azione di mediazione delle ‘arene istituzionali’, fino alla sottovalutata mancanza di un protocollo d’intervento comune tra i Paesi membri.

Dopo due shock globali, l’attacco terroristico dell’11 settembre e la crisi finanziaria del 2008, l’umanità intera ne ha conosciuto un terzo, ancora più violento e inaspettato: il Covid-19.
La nuova pandemia di Coronavirus e le seguenti misure restrittive attivate, il sovraccarico informativo, l’elevato numero di vittime e gli scarsi risultati finora ottenuti in termini di ricerca scientifica nel trovare un vaccino in grado di debellare il covid-19, sono tutti elementi che hanno sconvolto la quotidianità di ogni singolo cittadino a livello globale.
Che le numerose morti, la confusione comunicativa delle istituzioni europee e nazionali, l’intervento tardivo dei governi e del mondo della sanità, la mancanza di una cura immediata, la crisi sanitaria prima ed economica poi siano fattori che abbiano gravemente colpito la vita privata e professionale di ogni individuo, non vi è alcun dubbio. Ma come questa situazione di crisi e di emergenza inaspettata venga esattamente percepita e come tali configurazioni influenzino la vita quotidiana collettiva nella “nuova normalità” non è stato ancora sufficientemente concettualizzato.
Le persone hanno bisogno di sicurezza, affetto, ordine e connessione, ma nel momento in cui accade qualcosa che mette a serio rischio il totale soddisfacimento di tali bisogni gli individui rischiano di essere traumatizzati.
Secondo quella che il sociologo Alexander definisce “teoria profana del trauma”, quest’ultimo può essere definito come un evento accaduto naturalmente in grado di mandare in frantumi il senso di benessere di un attore individuale e collettivo; “l’essere traumatizzati” è la risposta impulsiva e immediata a tale evento distruttivo.
Ma nella società dell’informazione non sono tanto i fattori come l’imprevedibilità o la pericolosità di un fenomeno reale o immaginario a determinare il trauma, quanto piuttosto la rappresentazione pubblica di quegli eventi come fatti imprevisti e pericolosi per l’identità collettiva.
Ogni classe dirigente politica o morale deve tener conto di un problema, di una crisi, di una emergenza e attivarsi per risolverla, ogni società produce a suo modo condizioni disfunzionali o patologiche; il processo socioculturale, che definisce lo status di trauma, è fortemente influenzato dalle strutture di potere e dalle sensibilità e le competenze degli attori sociali coinvolti.
Il collasso dell’economia di un paese, una catastrofe naturale, cosi come un’epidemia sono classificabili senza dubbio come eventi che potrebbero far emergere situazioni di crisi importanti all’interno di un intero paese o di un continente, ma nonostante lo stato di realtà di tali eventi non necessariamente questi diventano traumatici per le collettività colpite.
Il processo trauma può essere definito come la distanza che separa un evento dalla sua rappresentazione; Thompson (1998) parla di “processo di rappresentazione” o “spirale di significazione” che comprende quattro dimensioni che potremmo, nel nostro caso specifico, applicare alla situazione emergenziale ancora in corso:

–             natura del dolore: Che cosa è davvero accaduto con il covid-19?

–             natura delle vittime: Quale gruppo è stato colpito dal virus?

–             relazione tra vittime del trauma e audience: Chi ascolta le storie delle vittime e come le persone davanti alle tv si identificano con i pazienti?

–             attribuzione delle responsabilità: Chi ha provocato il virus, come questo può essersi tramutato in trauma, come superiamo l’emergenza?

….continua a leggere su Il Telespettatore (da pag. 23 del pdf)…