Blue Whale: la fragilità degli adolescenti e dell’informazione emotiva
[di Lorenzo Lattanzi]
Un servizio de “Le Iene” trasmesso da Italia Uno in prima serata domenica 14 maggio ha allarmato tante famiglie e attirato l’interesse della stampa. Nel servizio Matteo Viviani raccoglie le testimonianze di alcune mamme in lacrime: ben 157 suicidi di ragazzi russi sarebbero riconducibili al gioco online “Blue Whale”, Balena blu, che si ispirerebbe al comportamento delle balene che per motivi misteriosi scelgono di lasciarsi morire sulla spiaggia. È abbastanza facile intuire come mai certe informazioni così emotivamente coinvolgenti possano fare breccia nel pubblico e stimolare la curiosità di giornalisti a caccia di titoli sensazionalistici. Certamente la mole di notizie che costantemente ci sommergono lascia sempre meno tempo alla ponderazione e alla ricerca delle fonti. Il servizio è ben costruito, sembrerebbe non dare adito a dubbi – sebbene Viviani accortamente utilizzi il condizionale – e ad un certo punto s’insinua addirittura il sospetto che anche alcuni casi di suicidi di adolescenti in Italia possano essere ricondotti al gioco online. Fermiamoci un attimo. Riflettiamo.
La morte di un adolescente è una tragedia immane per le famiglie che merita rispetto e riflessione: non può essere liquidata con ragionamenti banali e dietrologie tanto facili quanto fuorvianti. Ad una ricerca più mirata sul web, pur constatando la veridicità della notizia, saltano all’occhio grossolane approssimazioni e un pericoloso pressappochismo: la correlazione tra il suicidio e il gioco al momento non è dimostrabile; in Russia sarebbe stato arrestato soltanto Philipp Budeikin, considerato l’artefice del gioco, ma è difficile persino verificare se sia ancora in carcere o se al momento sia stato rilasciato.
Allora sorgono spontanee alcune domande: in situazioni come questa, in cui c’è in ballo la vita delle persone ed è particolarmente prevedibile la generazione di panico e allarme nelle famiglie si svolge un servizio giornalistico deontologicamente corretto? Se un ragazzo si toglie la vita possiamo accontentarci superficialmente del sospetto che qualcuno dallo schermo l’abbia indotto a farlo o forse dovremmo porci domande più profonde sul vuoto esistenziale che attanaglia la nostra società?
Senza dubbio dare la notizia spargendo allarmismo porta inevitabilmente a due errori di prospettiva le cui conseguenze sono tragicamente prevedibili: in primis il rischio di dare al gioco una pubblicità immeritata aiutandolo a diventare virale e rischiando paradossalmente d’incoraggiare tentativi di emulazione; inoltre criminalizzare per l’ennesima volta i dispositivi non aiutando a comprendere minimamente l’effettiva responsabilità del mondo adulto è davvero utile a qualcuno? (Alcune fonti insinuano addirittura che la notizia sia una bufala diffusa dal governo russo per disincentivare l’uso dei social!). Gettare nel panico migliaia di famiglie senza fornire concrete chiavi di lettura della complessità esistenziale degli adolescenti non serve. Forse è arrivato il momento di iniziare a considerare il progresso tecnologico una potenziale risorsa educativa, a patto che ci sia davvero la volontà da parte del mondo adulto di rimettersi in discussione e di coinvolgersi maggiormente nell’educazione mediale dei ragazzi. Questi ultimi, infatti, hanno bisogno di conoscere la vita non soltanto attraverso le suggestioni dello schermo, ma soprattutto attraverso la narrazione degli adulti, che devono vincere la fatica di incrociare lo sguardo con loro, riscoprendo le virtù del dialogo mediante l’ascolto sapiente con le orecchie e… soprattutto “con gli occhi”, poiché cercare nella tecnologia un capro espiatorio educativo è inutile e tragicamente troppo facile. Quasi come un videogame.